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Il debito mondiale nelle mani della Cina cresce

July 20, 2019

Economia, Politica

di Paolo Balmas –

Da quando la Cina è entrata nell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO), nel 2001, i suoi investimenti all’estero sono cresciuti esponenzialmente. Oggi, il debito mondiale nei confronti della Cina è dieci volte più alto di quello contratto nel 2000. Il totale, secondo uno studio rilasciato dal Kiel Institute, raggiunge circa i 5 trilioni di dollari, ovvero circa il 6% dell’economia mondiale. Quasi la totalità (85%) è denominato in dollari Usa. Il think tank tedesco, i cui dati sono stati riportati dal South China Morning Post, asserisce che circa il 50% del valore totale del debito contratto con la Cina non è riscontrabile attraverso le statistiche delle maggiori istituzioni finanziarie multilaterali, come la Bank for International Settlements, il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale. Allo stesso modo, anche i numeri relativi al debito in Germania e nell’Eurozona rispetto alla Cina risultano interessanti. La Banca centrale cinese (PBOC) possiede, infatti, circa 370 miliardi del debito tedesco e circa 850 miliardi di quello dell’Eurozona. Numeri alti, ma ancora abbastanza lontani dagli 1,2 trilioni di debito pubblico statunitense in mano cinese. Le analisi sull’espansione finanziaria cinese e sulle potenziali ricadute del colossale progetto della Belt and Road Initiative (BRI), in generale, si concentrano sulle opportunità che offre la Cina e la trappola del debito che si nasconde dietro l’angolo.

Recenti studi hanno dimostrato come il sistema bancario cinese sia in piena trasformazione e si stia preparando a una nuova fase di espansione e di integrazione nel sistema economico e finanziario globale. Sono vari gli esempi che lasciano intravedere tali cambiamenti. Primo, le tre banche di sviluppo cinesi, China Development Bank (CDB), China Agriculture Development Bank e Export-Import Bank of China, sono cresciute immensamente negli ultimi anni e hanno aumentato le loro operazioni all’estero, anche in collaborazione con le banche di sviluppo multilaterali e nazionali occidentali. Negli ultimi anni, queste tre banche hanno cambiato il loro sistema di finanziamento, che non è più dipendente interamente dallo Stato cinese. Il caso della CDB è il più convincente, con il 65% di fondi accumulati grazie a strumenti finanziari emessi sul mercato cinese, oggi accessibile attraverso vari canali e recentemente indicizzato da Bloomberg. Le operazioni esterne delle tre banche di sviluppo cinesi sono rivolte principalmente ai paesi della BRI. Sono attive attraverso l’industria dei fondi d’investimento in Europa, il cui fulcro è concentrato in Lussemburgo, e operano spesso in collaborazione con banche d’investimento locali (ad esempio in Ungheria) o multilaterali (come la European Investment Bank). Attualmente, il Fondo europeo d’investimento (EIF) collabora con il Silk Road Fund, il cui principale finanziatore è proprio la CDB, al finanziamento di infrastrutture in Europa.

 Un secondo fattore è la crescente presenza delle banche commerciali cinesi che hanno la loro sede principale in Lussemburgo e stanno velocemente costruendo una rete di filiali in vari paesi dell’UE. Queste banche (BOC, ICBC, ABC, BOCOM e CCB) operano come porte girevoli per facilitare gli investimenti cinesi in Europa e gli investimenti europei in Cina, con una crescente passione per l’internazionalizzazione delle piccole e medie imprese europee in Cina. Le attività sono solo agli inizi. Inoltre, sul fronte cinese, si assiste agli sforzi, ancora moderati, per aprire le porte dei mercati finanziari ai capitali stranieri. Un’apertura che ha avuto recenti sviluppi. Ad esempio, il grande fondo d’investimento statunitense Vanguard ha creato un fondo in Cina, con una partecipazione del 49%, in collaborazione con Ant Financial, il braccio finanziario di Alibaba. Ant Financial è legata al sistema di pagamento veloce (via telefono mobile) Alipay, che gode di un mercato di 700 milioni di utenti. Recentemente, le quote d’investimento straniere (QFII) sono state raddoppiate. Dal 2020, società straniere potranno acquistare e controllare con quote del 51% le attività finanziarie cinesi. Anche in ambito non finanziario, si assiste ad altri segnali di integrazione economica. In questi stessi giorni, Tesla lavora alla realizzazione del suo più grande impianto di produzione, nella periferia di Shanghai (un progetto datato che comunque non è stato fermato dall’America First dell’amministrazione a Washington, in piena guerra economica).

Tuttavia, molti analisti in Europa e in America non guardano a questi fatti, ma preferiscono profetizzare l’insostenibilità del modello a guida statale cinese. Alcuni asseriscono che proprio la presenza massiccia dello stato nei processi di creazione di mercato segnerà la fine dell’economia cinese, che si trova a un passo dal collasso. In questo senso, aumentano le contraddizioni. Infatti, istituzioni come il Financial Stability Board o la Bank for International Settlements, negli ultimi due anni, hanno rilasciato rapporti positivi sulla qualità delle banche cinesi (in particolare le grandi banche commerciali di proprietà statale). Le riforme e l’adeguamento agli standard occidentali sta funzionando (per il momento). Non solo la lezione “neoliberal” sull’ingerenza dello stato in questioni economiche è generalmente inappropriata al caso cinese (perché impone punti di vista occidentali a dinamiche non-occidentali), ma si rischia di perdere di vista l’essenziale. Ovvero, la Cina si prepara a una risposta su vasta scala, ad ampio raggio e a lungo termine in cui preoccupazioni come la trappola del debito hanno solo un valore marginale nella partita per il controllo dell’economia globale.

Piuttosto, si dovrebbe fare più attenzione ai tentativi di implementare nuovi standard in settori chiave, come quello energetico, finanziario, digitale e legale. Si pensi al Polar Code della Huawei, alla Global Energy Interconnection (GEI) della China State Grid, e alla electronic World Trade Platform (eWTP) proposta da Alibaba, ma anche ai nuovi tribunali internazionali per risolvere le future dispute economiche che emergeranno inevitabilmente a cavallo della BRI. Gli analisti cinesi, spesso, fanno notare come la strategia della Cina guardi al futuro, ai prossimi cento anni, mentre europei e americani continuano a essere concentrati sul trimestre successivo e sui dividendi di fine anno. Evidentemente, alla vigilia di una ulteriore apertura dei mercati finanziari cinesi, si presenta la necessità di superare il binomio rischio-opportunità, per capire se esistono le basi per una nuova strategia “europea” di integrazione con la Cina. La prospettiva attuale lascia pensare all’Europa, in particolare all’Unione Europea, come il principale attore a subire le nefaste conseguenze di un ulteriore irrigidimento delle dinamiche economiche mondiali. Gli sconvolgimenti successivi non troverebbero un vincitore in nessuno.

– Newsletter Transatlantico N. 20-2019

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