Esiti delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti

November 20, 2016

Interventi, Politica

– Intervento di Andrew Spannaus al Seminario della Commissione Affari Esteri della Camera dei Deputati del 15 novembre 2016 –

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Le elezioni presidenziali negli Stati Uniti hanno rappresentato una grande sorpresa quest’anno. L’esito finale ha provocato un misto di stupore e indignazione tra molti commentatori autorevoli, e anche tra le istituzioni politiche.

Le analisi che sentiamo però, spesso rischiano di ripetere gli stessi errori compiuti per l’intera durata di questa campagna, cioè la volontà di spiegare il sostegno ai candidati outsider soltanto in base all’identità di alcuni segmenti della popolazione, senza guardare le cause più profonde che hanno portato alla situazione attuale.

Invero la vittoria di Donald Trump non dovrebbe essere una grande sorpresa. Per tutta la durata di questa tornata elettorale i candidati anti-establishment hanno svolto un ruolo centrale, mettendo in forte difficoltà i candidati legati alle strutture di potere più tradizionali.

Sul lato democratico, Bernie Sanders ha vinto il 43% dei voti nelle primarie. E non possiamo dimenticare la sensazione diffusa, confermata dalle e-mail pubblicate da Wikileaks, che la struttura del partito favorisse Hillary Clinton. Alla fine Sanders ha perso alle urne, ma le debolezze di Hillary Clinton che sono uscite durante le primarie, hanno svolto un ruolo importante nella sconfitta della stessa l’8 novembre.

Sul lato repubblicano ci sono stati due candidati outsider. Sia Ted Cruz sia Donald Trump si sono candidati contro il partito. E’ un aspetto fondamentale: la classe dirigente del partito repubblicano, rappresentata in varie forme dai numerosi candidati alle primarie, ha dovuto piegarsi di fronte al successo tra la base di Donald Trump.

I temi utilizzati dai candidati outsider in entrambi i partiti sono abbastanza simili, seppur i toni siano stati molto diversi.

Sanders ha concentrato l’attenzione contro Wall Street, contro un sistema in cui i grandi capitali e le grandi società dominano e fanno i propri interessi, non quelli della gente comune. Sanders ha anche criticato la politica estera portata avanti da Hillary Clinton, sia con la critica ormai classica al voto per la guerra in Iraq nel 2003, sia in merito all’opportunità di intervenire militarmente in Medio Oriente adesso.

Trump e Cruz hanno cavalcato gli stessi punti: contro l’élite finanziaria, criticando Wall Street e la politica della globalizzazione che ha fatto perdere milioni di posti di lavoro industriali negli Stati Uniti.

Il bersaglio principale è stato il TPP, considerato il successore del NAFTA, l’accordo che ha facilitato l’esodo delle fabbriche americane verso il Messico ricercando il lavoro a basso costo. Ancora più posti di lavoro sono stati persi verso la Cina, e Trump in modo particolare ha promesso di tornare ad una politica più protezionistica nei confronti di questi paesi.

Trump ha anche promesso di ricostruire il paese. Afferma che i 6 trilioni di dollari spesi negli interventi in Medio Oriente sarebbero stati impiegati meglio negli investimenti interni agli Stati Uniti, per risollevare il tenore di vita della classe media.

E’ la classe media infatti il punto chiave. Le statistiche ufficiali dicono che l’economia americana si è ripresa benissimo dalla grande crisi del 2008-2009, con un calo della disoccupazione fino a sotto il 5%. Per una grossa fetta del paese però questa ripresa non è sentita, o è considerata decisamente insufficiente.

Non solo perché le istituzioni pubbliche – guidate dalla banca centrale – hanno fornito quantità di soldi enormi al settore finanziario mentre hanno chiesto alla gente di stringere la cinghia; ma anche perché si ignora il fatto che il processo di indebolimento della classe media non nasce nel 2007-2008, ma va avanti dalla metà degli anni Settanta, dall’avvento del connubio tra società post-industriale, deregulation e finanziarizzazione dell’economia.

La graduale trasformazione dell’economia americana – e anche delle altre economie occidentali, seppur a velocità diverse – verso realtà dominate dai servizi, ha avuto degli effetti profondi.

Per chi riesce ad accedere ai settori più avanzati dell’economia, le cose vanno molto bene. Per gli altri invece, sono diminuiti i salari ed è aumentata la precarietà.

A livello complessivo, il potere d’acquisto reale della forza lavoro americana non aumenta da 35 anni. Nella fascia più alta è aumentato in modo significativo; in mezzo e in basso si è vista invece la stagnazione e anche l’impoverimento.

Il reddito medio delle famiglie americane, sempre in termini reali, è più basso oggi di 16 anni fa.

E gli studi dimostrano – ma gran parte delle persone lo sanno già in modo intuitivo, anche in Italia – che oggi bisogna lavorare di più per avere lo stesso tenore di vita che si raggiungeva in passato.

Dunque quando la gente che ha vissuto con difficoltà questa trasformazione sente parlare dei grandi benefici dell’economia globalizzata e della forte ripresa economica, non fa altro che confermare il divario tra la visione delle élite politica ed economica, e la gente comune.

Qualcuno dirà che questa situazione è inevitabile in un mondo globalizzato, con nuovi attori che sfidano il primato dell’Occidente. Ma sarebbe troppo comodo dimenticare le decisioni politiche ed economiche che hanno aggravato la situazione, a partire dalla deregulation finanziaria che ha provocato le bolle speculative degli ultimi anni, insieme all’adesione dogmatica ad un’ideologia che ha ridotto sempre di più i margini di manovra dei governi.

Come si è visto anche qui in Europa, la critica a questa politica economica è stata per anni considerata anti-storica e inaccettabile se diretta verso certe istituzioni nazionali e sovranazionali.

Mi ricordo circa una decina di anni fa un episodio a Milano, quando parlai con un noto Professore della possibilità di ripristinare le regole monetarie internazionali che erano state gradualmente rimosse, promuovendo il concetto di una “Nuova Bretton Woods”. Mi diede del “comunista”. Sì, “comunista” chi pensa di regolamentare l’economia come fece Franklin Roosevelt.

Oggi si sono aperte delle crepe profonde in questa visione, ed è evidente che ci dovranno essere dei cambiamenti che privilegino l’economia reale e il benessere diffuso, piuttosto che l’economia finanziaria e la ricchezza concentrata verso l’alto.

Quello che ho presentato fino ad adesso rappresenta il fattore centrale dietro alla vittoria di Donald Trump, a mio avviso, ma è più che legittimo sollevare dubbi sui toni utilizzati da Trump durante questa campagna elettorale.

E’ comune parlare oggi della rivincita dell’America bianca, dei maschi bianchi in modo particolare.

Io credo che questo sia una forte semplificazione, che rischia di sviare l’attenzione dai problemi più sostanziali in tema di economia e politica estera.

I dati in merito al voto confermano che Donald Trump ha ricevuto tanti voti anche da segmenti della popolazione inaspettati: donne e ispanici, per esempio. Questo nonostante le offese verso i messicani e le registrazioni dei suo commenti scurrili pubblicate dai media.

Evidentemente ci sono altri temi, che vanno oltre l’identificazione come Latinos, donne, afroamericani o altro, che sono importanti.

L’esempio più lampante è quello degli iscritti ai sindacati, segmento dell’elettorato che tradizionalmente si mobilita in modo energico per i democratici. Ebbene questa volta le strutture sindacali hanno sì lavorato per Hillary Clinton, eppure tra gli elettori iscritti ad un sindacato Donald Trump ha guadagnato circa 10 punti rispetto al candidato repubblicano di quattro anni fa, Mitt Romney. Questo è stato un fattore importante negli stati decisivi di questa contesa elettorale: Michigan e Wisconsin per esempio.

La squadra di Clinton era sicura di vincere in questi stati, tanto che per mesi aveva smesso di fare pubblicità e di organizzare comizi pubblici. Quando si sono accorti della rimonta di Trump in questi stati nelle ultime settimane, era già troppo tardi.

I lavoratori della Rust Belt sono razzisti? Hanno votato in base al richiamo arrabbiato di Trump all’America bianca?

Non esattamente: nel 2012 Barack Obama vinse tra questo segmento della popolazione di ben 18 punti, molto più di Donald Trump.

Lo stesso ragionamento vale per altri segmenti dell’elettorato: Trump ha vinto tra le donne bianche con il 53% del voto; e Trump ha vinto il 29% dei voti tra gli ispanici, un numero ben oltre le attese.

Negli ultimi giorni della campagna tutti erano convinti che gli ispanici avrebbero consegnato la vittoria a Hillary Clinton in Florida. Non è andata così.

Anche tra gli afroamericani il voto per Hillary Clinton è stato più basso di quello che si aspettava. Come tra i cattolici, che hanno votato in maggioranza per Trump, nonostante non rappresenti proprio i valori conservatori.

In base a tutte queste apparenti anomalie vediamo che la volontà di cambiamento nella popolazione americana è molto forte. Non voglio dire che razzismo e sessismo non esistono. Ci sono fenomeni di questo tipo, alcuni dei quali sono usciti in modo preoccupante in questa campagna elettorale.

Ma non sono questi temi che hanno permesso la vittoria di Donald Trump.

Piuttosto si tratta di una rivolta contro l’establishment, contro un’élite che ha ignorato certi problemi, e in modo particolare la percezione di tali problemi da parte di una grossa fetta della popolazione.

E’ stato peggio che inutile bollare i sostenitori di Trump come dei semplici ignoranti; infatti la mancanza di una risposta seria sui contenuti portati avanti dal candidato repubblicano – a prescindere dalla coerenza degli stessi – ha solo aggravato il sentimento di anti-politica tra molti elettori.

Di conseguenza molti cittadini hanno votato per il cambiamento, e Donald Trump ha capito benissimo questo sentimento tra la popolazione, tanto da utilizzare praticamente le stesse parole utilizzate da Obama 8 anni fa: “we are the change we have been waiting for”.

Trump ha vinto il 10% degli elettori che approvano Obama, e perfino il 23% degli elettori che pensano che il prossimo presidente dovrebbe essere “più liberal,” cioè più progressista.

Sono dati che riflettono la debolezza di Hillary Clinton, vista come troppo accondiscendente verso l’establishment, e verso il mondo della finanza in modo particolare; e l’idea che Clinton avrebbe vinto solo facendo notare gli aspetti negativi dell’altro contendente ha mostrato tutti i suoi limiti.

Guardando al futuro ci sono due grandi temi che dovranno essere affrontati:

Dapprima lo scontro in politica economica, tra liberismo e protezionismo.

Ma queste sono le parole che userebbero gli esperti, che in qualche modo presentano le posizioni in modo estremo; se lo mettessimo in termini più popolari, recependo il messaggio che viene mandato dalla popolazione di tutto il mondo transatlantico, potremmo parlare di una politica della finanza e dell’austerità, da una parte, e dell’economia reale e degli investimenti dall’altra. Cioè ci può essere un cambiamento di direzione, senza la paura di bloccare il commercio internazionale.

Su questi punti è già in atto una grande battaglia nella nascente Amministrazione Trump.

Si sa che Trump non è un conservatore in economia. Ha promesso di ricostruire le infrastrutture degli Stati Uniti, promette di difendere programmi come Social Security e Medicare, rispettivamente le pensioni e la sanità pubblica per gli anziani.

La stragrande maggioranza dei repubblicani al Congresso hanno una visione ben diversa, più orientata verso forti tagli al bilancio e un’ulteriore riduzione del ruolo dello stato.

Trump dovrà affrontare la contraddizione tra la volontà di tagliare le tasse e ridurre la regolamentazione, e le promesse di proteggere il lavoro e fare investimenti importanti per ravvivare l’economia produttiva.

Questa battaglia avrà effetti importanti per il suo consenso tra la popolazione; si vedrà presto infatti se acquisirà credibilità, oppure se le retorica della campagna elettorale rimarrà tale, senza tradursi in fatti concreti.

L’esito dello scontro influirà anche sulla politica di altre parti del mondo, e dell’Europa in particolare.

Toccherà temi come il TTIP, la tassazione delle imprese, le opportunità di crescita negli Stati Uniti. E anche settori specifici come l’energia.

Il mio collaboratore Paolo Balmas ha scritto un articolo per la newsletter Transatlantico.info che spiega come la nuova Amministrazione potrebbe puntare ad uno sviluppo rapido delle esportazioni di idrocarburi in Europa, con evidenti ripercussioni anche geopolitiche.

Il tema della politica estera del presidente entrante non è meno importante.

Uno degli aspetti più sorprendenti di questa campagna elettorale è che Trump sembra rappresentare più continuità con le posizioni di Barack Obama che non Hillary Clinton. Trump non lo dice, chiaramente, in quanto per motivi politici deve essere critico con l’attuale presidente, e utilizzare un linguaggio forte, per esempio quando parla di come affrontare l’ISIS o dell’accordo con l’Iran.

Ma sui temi più scottanti, a partire dalla collaborazione con la Russia intorno alla Siria, le similitudini tra il presidente uscente e quello entrante sono notevoli. Trump – come hanno fatto gli altri candidati outsider – dice che occorre lavorare con il Presidente russo Putin contro l’ISIS e contro Al-Qaeda. Si è difeso con determinazione contro le accuse di essere troppo filo-russo, nonostante l’orientamento critico della stragrande maggioranza delle istituzioni e dei media americani.

Hillary Clinton invece, sulla Siria, sulla Russia e anche su Israele, ha adottato delle posizioni più critiche rispetto all’Amministrazione ancora in carica.

Il caso Siria promette di essere il primo grande banco di prova nel mondo della sicurezza nazionale americana. Negli ultimi mesi si è visto un raffreddamento rapido dei rapporti Usa-Russia; ora si vedrà se il Presidente Trump sarà in grado o meno di imporre un cambiamento di linea. I nomi che sono trapelati finora in merito al potenziale Segretario di Stato fanno capire che non sarà facile.

Non si può non notare quanto fatto da Obama pochi giorni dopo l’elezione: dopo anni di indecisione e resistenze interne, il Presidente uscente ha ordinato al Pentagono di prendere di mira direttamente il Fronte al-Nusra – ora tecnicamente Jabhat Fatah al-Sham – senza più ascoltare le preoccupazioni di chi sostiene i cosiddetti ribelli moderati.

Prima del voto invece la Casa Bianca sembrava aver deciso di lasciare ogni decisione in merito alla prossima amministrazione.

Ovviamente l’andamento dei rapporti con la Russia avrà un forte impatto sull’Europa, in quanto una migliore cooperazione sulla Siria porterebbe naturalmente anche ad un tentativo di abbassare le tensioni intorno all’Ucraina, con ripercussioni sulle operazioni della Nato nei paesi dell’Europa Orientale.

E’ noto infatti la volontà di Trump di riorientare la Nato verso un ruolo di anti-terrorismo; rimane da vedere se, e con quali tempi, questa visione sarà attuata nei fatti.

Ci sono numerose altre aree in cui le contraddizioni della campagna elettorale provocheranno scontri politici ed istituzionali nei prossimi mesi. Una di queste è l’Iran, dove la volontà dichiarata di “stracciare l’accordo” sembra difficilmente conciliarsi con la realtà dell’apertura nei confronti della Repubblica Islamica già avviata nel resto del mondo.

Un’altra è la Cina. In campagna elettorale Trump ha criticato fortemente la Cina, soprattutto in campo economico, indicandola come principale responsabile della perdita del lavoro industriale in America.

Anche qui la retorica si scontrerà con la necessità di collaborare in qualche misura con la grande potenza asiatica, ed anche qui si è registrato un segnale interessante in questi giorni.

Uno dei consiglieri di Trump, James Woolsey, ex direttore della Cia, dopo l’elezione ha affermato che occorre rivedere la posizione americana nei confronti della Banca Asiatica per gli Investimenti Infrastrutturali, il principale strumento di finanziamento dei progetti infrastrutturali One Belt One Road.

Questa dichiarazione considerata insieme ai cambiamenti in atto nella politica cinese, con la concentrazione sui consumi e sulla qualità indicata nel tredicesimo piano quinquennale, fa capire la volontà – almeno di alcuni – di cercare la collaborazione con la Cina in base ad una visione economica diversa da quella dei bassi costi.

In conclusione, si può dire che si stanno già delineando i grandi temi che andranno inevitabilmente affrontati a causa della vittoria di un candidato outsider che, nonostante gli atteggiamenti e i toni problematici utilizzati durante la campagna elettorale, ha focalizzato l’attenzione su alcuni problemi fondamentali per tutto il mondo occidentale.

L’ottimismo mi porta a pensare che le istituzioni statunitensi saranno abbastanza forti da bloccare eventuali deviazioni dalle norme costituzionali che potrebbero emergere; e anche che crescerà la consapevolezza di un cambiamento necessario per ristabilire la fiducia tra cittadini e istituzioni politiche, anche se a livello pratico, la strada sarà piena di ostacoli.

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