Afghanistan troops helicopter

Afghanistan: la fine di un’era

September 15, 2021

Politica, Strategia

(free) – di Andrew Spannaus –

Il ritiro delle forze armate statunitensi dall’Afghanistan marca un punto di transizione: dalla politica estera americana degli ultimi decenni ad un periodo nuovo in cui si realizzerà appieno lo spostamento delle attenzioni verso una nuova configurazione strategica, in cui dominerà la sfida tra grandi potenze, con in testa la Cina. La decisione del presidente Biden di concludere il ritiro rappresenta la conclusione di un lungo processo di rivalutazione delle politiche di “cambiamento di regime” che hanno guidato gli interventi militari recenti. Questa modalità fu messa in discussione prima da Barack Obama, che però fece solo un debole tentativo di invertire la rotta, per poi essere presa a bersaglio direttamente da Donald Trump, che provò più volte ad iniziare il processo di ritiro dai vari teatri del Medio Oriente allargato, pur scontrandosi con una forte opposizione tra le istituzioni di sicurezza nazionale. La scelta di Joe Biden di proseguire in questa direzione è dettata quindi da due fattori: l’opposizione pubblica alle continue operazioni militari all’estero, che sono costate troppo in termini di soldi e di vite umane, e il riconoscimento dell’inefficacia degli interventi, e della necessità di ri-orientare le attenzioni verso la zona dell’Indo-Pacifico.

Il ritiro stesso è stato, ovviamente, pasticciato: le forze armate e l’intelligence degli Stati Uniti non avevano capito che l’esercito afgano sarebbe crollato nello spazio di pochi giorni. All’inizio si parlava di 12-18 mesi, poi di 6-9 mesi, e infine di circa 3 mesi di tempo prima dell’arrivo dei talebani a Kabul. Le forze afgane sono crollate invece subito, a causa principalmente di tre fattori: la modalità dell’accordo sottoscritto dall’amministrazione Trump con i talebani, che aveva tagliato fuori il governo afgano e fissato una data ultima alla presenza americana; la mancanza di sostegno – per esempio aereo – da parte delle forze armate Usa; e infine i noti problemi di corruzione e inefficienza dell’esercito stesso, che di fatto si è arreso senza combattere in molte zone, accettando da subito il trasferimento del potere ai talebani.

In queste circostanze, l’evacuazione di oltre 120 mila persone da parte degli Stati Uniti e di altri paesi alleati in circa due settimane è stato uno sforzo enorme, e anche un grande successo logistico. Ma il disastroso attentato compiuto da ISIS-K si è aggiunto alle scene iniziali del caos all’aeroporto, imponendo un costo significativo in termini di vite umane, e anche un costo politico per quanto riguarda l’immagine americana, interna e esterna. Le critiche al governo Usa sono più che legittime in questo caso: non aver previsto il rapido deteriorarsi della situazione, e aver abbandonato la propria base aerea (Bagram), ha portato ad una situazione frenetica in cui le forze americane non avevano il controllo della situazione, e hanno dovuto contare sull’aiuto dei talebani per gestire la sicurezza intorno all’aeroporto di Kabul.

Ma le critiche a Biden sono spesso contraddittorie, oppure nascondono un secondo fine: molti dei repubblicani – e anche dei falchi democratici – che si sono scagliati contro il presidente in realtà non hanno ancora abbandonato la vecchia modalità strategica: credono che gli Stati Uniti debbano rimanere in Afghanistan, e non hanno ancora digerito la nuova direzione in politica estera che è emersa negli ultimi anni; ignorano il peccato originale della politica ideologica del cambiamento di regime iniziata dall’Amministrazione Bush, che stilò un elenco di 7 regimi da abbattere, andando ben oltre l’originale obiettivo di combattere le cellule terroristiche che avevano attaccato gli Stati Uniti e perseguendo una “Guerra al Terrore” con modi che spesso hanno generato più problemi – e più terroristi – di quelli che hanno risolto. Tutto questo senza ricordare che gli stessi terroristi erano stati finanziati in origine proprio dagli Usa e dai suoi alleati come l’Arabia Saudita.

Beninteso, è legittimo discutere se gli Usa debbano mantenere migliaia di truppe in vari paesi nel mondo dove sono intervenuti militarmente per combattere dei regimi totalitari: dopo oltre 70 anni c’è ancora una presenza stabile in paesi come il Giappone, la Germania e l’Italia. Ma il trasformarsi delle operazioni americane dopo la Seconda guerra mondiale in interventi dal sapore imperiale, soprattutto negli ultimi vent’anni, ha cambiato i termini del dibattito: da una parte ci sono le considerazioni strategiche sull’efficacia degli interventi, dall’altra il fatto che l’opinione pubblica americana non è più disposta a sostenere queste guerre. Biden, pur ferito politicamente dagli eventi delle ultime settimane, punta su questa consapevolezza, in quanto i sondaggi dimostrano che ancora oggi gli elettori americani sostengono la decisione in termini generali.

Dunque il ritiro dall’Afghanistan “rappresenta un cambiamento di fase e la fine degli interventi stile ‘regime change’ nel Medio Oriente allargato”, come ho sostenuto in un’intervista con Aki-Adnkronos International lo scorso 31 agosto. Il giorno dopo, il presidente Biden ha sottolineato questo concetto nel suo discorso alla nazione, affermando che la fine della guerra in Afghanistan segna “la fine dell’era delle grandi operazioni militari che cercano di rifare altri paesi”. Presentando l’evacuazione nel modo migliore possibile, ha difeso la sua decisione con forza e ha anche parlato dei costi umani per i soldati e le loro famiglie, dando quasi l’impressione che volesse mettere in discussione il modello stesso dell’interventismo militare globale.

Naturalmente questo non preclude le operazioni delle forze speciali in Medio Oriente e in Africa, come anche l’utilizzo dei droni e dei missili per condurre attacchi da lontano (che tra l’altro creano non pochi “danni collaterali” con conseguente rabbia tra le popolazioni locali); l’America non ignorerà i terroristi, ma cambierà modalità e ridurrà l’impronta dei “boots on the ground”.

Tuttavia, si tratta di un cambiamento di fase, l’inizio di un nuovo approccio strategico, non la fine della proiezione militare americana nel mondo. Ora le attenzioni si sposteranno ancora di più verso l’Asia, come annunciato già da Obama e come avvenuto in termini pratici durante gli anni di Trump. Ci si concentrerà sulla sfida tra grandi potenze che è già aperta con la Cina; infatti nelle istituzioni militari si aspetta che la prossima guerra – se ci sarà – sarà una guerra grande, non un intervento come quelli visti negli anni nella Guerra al terrorismo (si veda Transatlantico n. 25-2021).

Chiaramente l’avversario più probabile è la Cina, e in questo momento il punto di tensione più evidente è Taiwan. L’amministrazione Biden cerca di stabilire regole di convivenza con Pechino, in quanto l’integrazione dell’economia mondiale non permette un distacco pieno tra i paesi, ed è evidente che la Cina non ha nessuna intenzione di arrestare il suo processo di crescita, che comporta maggiore influenza e responsabilità non solo nel proprio ‘quartiere’, ma anche nelle regioni come l’Africa e l’America Latina dove è cresciuto fortemente il suo peso economico e politico negli ultimi anni.

Per Xi Jinping la questione di Taiwan è centrale, un punto che potrebbe validare la sua leadership; per gli Stati Uniti, rappresenta una sfida e un test del proprio ruolo globale. Non mancano le voci che interpretano il ritiro americano dall’Afghanistan come un indicatore di un nuovo isolazionismo, e quindi della debolezza di Washington, facendo capire a Pechino che non serve frenare le proprie ambizioni strategiche. Se a livello generale si tratta di una lettura sbagliata, cioè che ignora la determinazione americana ad essere sempre più presente nell’Asia per contrastare la Cina, a livello particolare di Taiwan, si apre in effetti un grande elemento di incertezza. Per Pechino non converrebbe invadere l’isola a breve, per via dei rischi politici e militari; sarebbe molto meglio un’azione graduale di pressione e di assimilazione. Ma per gli Stati Uniti il timore è che non sarebbe affatto facile fermare Pechino se decidesse di agire militarmente. L’America sarebbe disposta veramente ad entrare in guerra con una potenza che almeno si avvicina ad essere al suo stesso livello? Per le istituzioni di sicurezza nazionale il cambiamento di fase rappresenta il passaggio ad un’altra modalità, uno spostamento del centro delle attenzioni; ma questo cambiamento è stato prodotto anche dall’opinione pubblica, che sicuramente non è alla ricerca di una nuova guerra, tra l’altro molto più impegnativa di quelle recenti.

Il prossimo decennio sarà pieno di tensioni. Xi Jinping punterà a consolidare il suo ruolo nella storia cinese, e dovrà decidere quanto l’espansione cinese sarà militare oltre che economica. Nel frattempo gli Stati Uniti punteranno a coinvolgere più alleati possibili nel tentativo di contenere le ambizioni di Pechino, ma potranno trovarsi davanti a scelte molto difficili, che metteranno a confronto l’idea di uno spostamento delle priorità nel mondo istituzionale, e un cambiamento più profondo guidato dalla reazione della popolazione americana agli errori degli ultimi vent’anni.

– Newsletter Transatlantico N. 26-2021

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