Joe Manchin

Il “Joe” più potente di Washington

September 23, 2021

Notizie, Politica

(free) – Tra il ritiro pasticciato dall’Afghanistan e la nuova ondata di contagi e morti dovuti alla variante Delta del Covid-19, il presidente americano Joe Biden sta attraversando un periodo difficile, provocando anche un calo significativo del proprio indice di gradimento. Biden ha perso 10 punti nei sondaggi dall’inizio del suo mandato, passando in territorio negativo durante il mese di agosto, quando il numero degli sfavorevoli ha superato quello dei favorevoli. E’ normale che un presidente perda circa 5 punti dopo la “luna di miele” iniziale con l’opinione pubblica, ma le difficoltà di Biden vanno oltre, causate da problemi specifici che gli elettori vedono come fallimenti da parte della Casa Bianca.

Biden è convinto che alla lunga il ritiro dall’Afghanistan non lo danneggerà, in quanto la maggior parte degli americani concorda con la fine della guerra. Sul versante Covid, spinge molto sulla ripresa della campagna vaccinale per evitare un rallentamento economico; negli Usa il tasso di vaccinati rimane ancora sotto il 60%, pur avendo iniziato a vaccinare prima di altri paesi. Biden, inoltre punta in modo particolare ai prossimi grandi programmi di investimento nelle infrastrutture fisiche e sociali del paese, attualmente di fronte al Congresso.

I democratici hanno una maggioranza stretta alla Camera dei Deputati, e strettissima al Senato, dove non possono permettersi di perdere nemmeno un senatore. Questa situazione significa che i democratici più moderati, ossia i centristi, sono diventati assolutamente cruciali: se si oppongono ai programmi molto espansivi della sinistra progressista, il partito è costretto ad andargli incontro, oppure rischia di rimanere a mani vuote.

Al momento c’è un senatore in particolare che comanda la scena: Joe Manchin della West Virginia. Si tratta di un democratico che rappresenta uno stato in cui Donald Trump vinse di 39 punti nelle ultime elezioni presidenziali. Chiaramente, Manchin sente la necessità di distinguersi dall’ala progressista del proprio partito, per mantenere la sua immagine di indipendenza. In termini pratici questo significa andare incontro alla narrazione dei repubblicani su alcuni punti, cercando di mostrarsi aperto al dialogo con l’altra parte piuttosto che sostenere sempre le priorità dei suoi colleghi democratici.

Il risultato è che Manchin si trova in una posizione di potere enorme (che non pare affatto dispiacergli). Infatti su più punti ha costretto il suo partito a ridurre le proprie pretese, dagli investimenti pubblici alle regole sulle votazioni, alle manovre per superare l’ostruzionismo dei repubblicani al Senato. Sull’ultimo punto Manchin si rifiuta di appoggiare una modifica alla regola del filibuster che obbliga la maggioranza ad arrivare a 60 voti per approvare la maggior parte delle leggi. Senza un cambiamento a questo meccanismo, i sogni dei democratici rischiano di rimanere nel cassetto.

Al momento ci sono due campi di battaglia dove Manchin sta esercitando la propria influenza di fronte alle forti pressioni del proprio partito, e ad una strategia ibrida della Casa Bianca. Il primo è sulle regole del voto. Siccome i repubblicani stanno lavorando rapidamente a livello dei singoli stati per varare nuove leggi che mirano a limitare il voto anticipato e per corrispondenza, sapendo che questo tende ad andare a loro favore, i democratici puntano ad una serie di regole nazionali che garantiscano standard uniformi. Manchin ha già di fatto cassato la proposta più ambiziosa, e ha lavorato per costruire un disegno di legge più limitato, ma che comunque sarebbe utile per evitare la grande differenza nelle regole tra i vari stati e gli abusi di parte che introducono storture nel sistema. Ora, però, deve decidere: dopo aver costretto il partito a modificare la sua proposta, la questione è se la abbandonerà comunque se non arriveranno anche dei voti repubblicani (scenario molto probabile), o se si assumerà la responsabilità di far passare il testo che lui stesso ha plasmato anche se significa abbandonare la speranza di un accordo bipartisan.

Il secondo punto, che potrà essere determinante nei prossimi anni non solo per le sorti dell’amministrazione Biden, ma per l’andamento della politica americana in generale, riguarda gli investimenti pubblici. La Casa Bianca è riuscita a raggiungere un accordo con i repubblicani per investimenti nelle infrastrutture fisiche di 1,2 mila miliardi di dollari, ma la votazione finale è sospesa mentre si tratta su una seconda proposta dei democratici che prevede 3,5 mila miliardi di investimenti nelle infrastrutture sociali, dagli asili nidi alla maternità per le lavoratrici, dall’espansione della sanità pubblica all’università, oltre ad investimenti in settori come l’energia pulita e la ricerca.

Lo schema di Biden e della presidente della Camera Nancy Pelosi è di legare il compromesso bipartisan alla proposta con le priorità democratiche, così costringendo i centristi a sostenere entrambi. Ma dopo essersi speso a favore del primo, Manchin ha già fatto marcia indietro sul secondo, mettendo a rischio entrambi. La motivazione sarebbe che 3,5 mila miliardi sono troppi. In realtà all’opinione pubblica questi numeri non significano molto: quando si oltrepassa il trilione importa poco quanti siano i soldi, e molto dove andranno, cioè se si spenderanno bene per migliorare le condizioni di vita.

I repubblicani tradizionali, guidati dal capogruppo repubblicano al Senato Mitch McConnell, sono contrari all’aumento della spesa pubblica, per ideologia ma anche per evitare di dare vittorie a Biden. Ora spetta al Joe più potente di Washington in questo momento decidere se si farà un passo avanti su dei temi fondamentali per il futuro del paese.

– Newsletter Transatlantico N. 29-2021

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