Occupy bailout

Lo Stato e il SuperStato

September 7, 2017

Cultura

– Contributo di R. Perfetto e R. Melillo – Ospitiamo un’analisi sulla natura dello Stato e il ruolo della classe media. Le opinioni espresse sono esclusivamente quelle degli autori.

Lo Stato è una corda tra la tribù e il SuperStato? L’eccesso di ineguaglianza lo sbilancia. La classe media ne garantisce l’equilibrio

R.Perfetto, R. Melillo

Concordia Ordinum.

Già nell’antica Grecia ne parlava Euripide. Nelle Supplici del 422 a. C. si legge: “Tre sono le classi sociali: i ricchi, dannosi e che vogliono sempre di più; quelli che non hanno e difettano di mezzi di sussistenza, pericolosi perché si lasciano prendere dall’invidia e illusi dalle parole dei malvagi patroni, lanciano perfide frecciate contro gli abbienti. Delle tre parti quella che sta in mezzo salva le città, custodendone l’ordine da esse stabilito”. Euripide elaborò la teoria della classe media: essa è l’unica in grado di garantire un equilibrio tra le parti. La via da percorrere per il bene dello Stato era indicata a chiare lettere nella concordia ordinum.

John Plender del Financial Times, nel suo libro “La verità sul capitalismo”, è fortemente critico quando elenca le crisi più significative generate da una finanza speculativa che non conosce la Concordia ordinum di cui sopra. Per come la finanza è regolamentata, Plender, e non solo lui, prevede nuove crisi. Ma è necessario distinguere le cose e riconoscere che esiste anche una finanza “buona” che lavora per l’equilibrio. Quando permette, ad esempio, al risparmio accumulato (come ad esempio i fondi pensione) di incontrare la richiesta capitale (per richiedere mutui, per finanziarsi gli studi, etc.). In tal modo favorisce l’intermediazione tra generazioni ma anche tra Paesi, tra investitori e Paesi, e tra investitori e aziende.

La pace di Vestfalia, Hobbes, Locke. Diritti e sicurezza.

Il “parto” dello Stato moderno fu un processo lento e doloroso: basta ricordare la Guerra dei Trent’anni, scoppiata essenzialmente per motivi religiosi e conclusasi con la pace di Vestfalia, che segnò un mutamento significativo della geopolitica europea. Henry Kissinger nel suo libro “Ordine Mondiale” la definisce “l’impalcatura dell’Ordine Internazionale”. La scomparsa dell’impero aveva favorito la nascita degli stati moderni, che con la Pace di Vestfalia arrivano a riconoscersi tra loro. Per intenderci, quelli “appena nati”, come Svezia e Olanda, erano ritenuti “pari” ai “vecchi” Spagna, Francia e Inghilterra. Si creò un equilibrio, un Ordine Internazionale: nessuno Stato poteva interferire negli affari interni di un altro o attaccarlo.

Se la Pace di Vestfalia aveva definito da un punto di vista “esterno” lo Stato, per il suo “funzionamento interno” dobbiamo richiamare due figure chiave: Thomas Hobbes e John Locke. In Inghilterra, Hobbes si interrogò sulle dinamiche dello stato di natura e del bellum omnium contra omnes, cioè sull’essere “tutti contro tutti”. Una sorta di far west che si generava quando l’assenza di un’autorità forte produceva il caos e la necessità per gli uomini di farsi giustizia da soli. Nel Leviatano, Hobbes afferma che gli uomini per uscire da questo status di perenne pericolo del “tutti contro tutti”, devono trasferire parte dei loro diritti ad un potere sovrano in grado di tutelare la loro sicurezza. John Locke, anche lui inglese, in un certo senso segue la scia di Hobbes, ma intende il contratto sociale in modo più bilanciato: gli uomini si autolimitano nei loro diritti, poiché delegano la sicurezza alla figura del potere sovrano a patto che il sovrano/lo stato garantisca la loro sicurezza. Se non lo fa, il contratto sociale viene meno e l’uomo può tornare a farsi giustizia da solo, cioè si regredisce allo stato di natura.

Anche i soldi migrano.

Thomas Piketty nel suo “Il Capitale nel XXI secolo” ci dice che negli ultimi 30 anni abbiamo assistito ad una crescente polarizzazione della distribuzione del capitale: un trasferimento verso l’alto dei patrimoni. I dati al 2013 della Federal Reserve dicono che il 72 % del patrimonio americano è nelle mani del 10 % della popolazione. Scopriamo inoltre che, tra il 1977 e il 2007, i più ricchi sono riusciti a intascare i 3/4 della crescita avvenuta negli States.

La ricchezza semplicemente si trasferisce verso l’alto. Questa “migrazione” accade, secondo Piketty, quando i tassi di rendimento del capitale sono superiori ai tassi di crescita economica, cioè quando la finanza cresce più velocemente dell’economia. Chi ha soldi avrà sempre più soldi. Secondo Piketty, il problema è di tipo “strutturale” e la finanza speculativa (quella “cattiva” per intenderci) ha un ruolo secondario. Questo perché, crescendo il capitale più velocemente dell’economia reale, e dal momento che la ricchezza della classe media dipende molto dai redditi, legati all’economia, ne consegue che non si potrà mai accumulare ricchezza quanto chi è già ricco.

Non abbiamo solo un trasferimento verticale ma anche orizzontale (o geografico): di recente The Guardian[1], citando il lavoro di Branko Milanovic (Global Inequality, 2016), ha illustrato come la ricchezza si sia “trasferita” dalla classe media dei paesi sviluppati a quelli dell’Asia dove essenzialmente si è verificato il “grosso” delle delocalizzazioni.

Nazionalismo, protezionismo e populismo.

Risultati come Brexit, destre europee, protezionismo “made in US”, non sono casualità ma sono il “prodotto o l’effetto” di un sistema, un qualcosa di strutturale che ha inviato chiari segnali. Siamo in una pentola a pressione. E la temperatura aumenta. Un’analisi chiara del problema è presentata nel lavoro “La rivolta degli elettori” del giornalista/analista americano Andrew Spannaus: Washington e Bruxelles sono stati incapaci di riconoscere, talvolta con un atteggiamento negazionista, i problemi portati alla ribalta dai candidati che veicolavano questi voti di protesta.

Non possiamo negare che la globalizzazione abbia avuto effetti positivi. Ma anche negativi. Dati e analisi mostrano che le classi medie dei paesi sviluppati abbiano pagato quella che potremmo definire una “tassa di riduzione mondiale della povertà”. La questione è che lo hanno fatto inconsapevolmente, nessuno le ha preparate. Come indicato da Spannaus, si è assistito ad una perdita del senso di solidarietà proprio a causa dei crescenti disagi economici.

Smith diceva che il capitalismo lavora meglio nelle società con alti livelli di fiducia (e aggiungiamo solidarietà) tra i partecipanti. Quando la –fiducia sociale– cala, i costi per fare business aumentano.

Le politiche hanno giocato praticamente in difesa, quando invece sarebbe stato meglio giocare in attacco e contribuire attivamente alla definizione delle regole (leggasi trattati di libero scambio).

L’indebolimento economico della classe media ha creato e crea attrito, tensione, l’Europa si sta giocando tutto su questo. E anche se ad oggi, le tornate elettorali sono state favorevoli, i problemi di cui parliamo restano.

La stessa crisi migratoria che l’Europa ha vissuto sul suo confine mediterraneo, “aumenta la temperatura” di quella classe media, che probabilmente ritiene di aver contribuito già abbastanza alla causa della riduzione della povertà mondiale. Un’ analisi pubblicata a giugno dal blog Econopoly[2] (Sole24Ore), stima per l’Italia un costo legato al fenomeno migratorio di 4.2 miliardi di euro per il solo 2017. La finanziaria approvata per il 2017 è stata di circa 27 miliardi di euro.

Precisiamo che non siamo contrari ai flussi migratori, ma questi devono essere ben regolati, così come avviene negli Stati Uniti: devono essere controllati, equilibrati, attrarre il miglior capitale umano.

Si aggiungano al quadro gli attacchi terroristici in Francia, Belgio, Inghilterra e ultimo in Spagna che hanno contribuito a surriscaldare gli animi e il senso di non-sicurezza dei cittadini.

Dove premono queste forze? Incidono esattamente su quel contratto sociale tra cittadino e stato di cui abbiamo parlato citando Hobbes e Locke. Se il cittadino percepisce che le sue conquiste su sicurezza e ambito socioeconomico sono in pericolo, allora ritorna lì, a circa quattrocento anni indietro, alla “stipula del contratto”. Probabilmente si pone queste due domande: Ma non eravamo usciti dallo status del “tutti contro tutti”? Lo stato non ci garantiva la sicurezza?

Non a caso, come si osserva dal lavoro di Piketty, i primi investimenti della spesa pubblica sono proprio indirizzati verso ciò che serve a garantire l’ordine e la sicurezza. Poi viene tutto il resto.

Per i Paesi considerati da Piketty (Svezia, Francia, Regno Unito e Stati Uniti), la percentuale delle imposte e dei prelievi (tasse) del reddito nazionale, assume nel tempo la stessa forma: cresce dopo la prima guerra mondiale in maniera simile arrivando al 10% del reddito nazionale.

Con quel 10% di reddito nazionale si pagavano la polizia, l’esercito, l’amministrazione, la giustizia (ossia il necessario per garantire il funzionamento dei tre poteri di cui parlavamo prima). Dopo la Seconda Guerra Mondiale, gli stati iniziarono a finanziare anche le scuole, le infrastrutture minori, le università, la sanità, le pensioni ecc. Quindi dopo aver coperto sicurezza e giustizia, gli stati cominciarono ad occuparsi anche dello stato sociale, che Piketty identifica tra il 25 e il 35% del reddito nazionale. Non poco.

Una corda tra tribù e SuperStato.

L’Europa sta affrontando una crisi esistenziale: dopo una fase di forte europeismo, grazie agli scambi commerciali si assiste oggi alla ricomparsa di spinte nazionalistiche e di destra. Trascurarle sarebbe pericoloso.

Più stato o più Europa? Una strada non esclude l’altra. Di sicuro presentarsi al tavolo con India o Cina o con le big corporations, non come singolo stato (Italia/Francia/Germania ecc.) ma come “Europa” ha un peso diverso.

L’idea della creazione di una difesa europea rappresenta un passo importante per l’evoluzione a “Stato di Stati o SuperStato”; solo il commercio o la moneta unica non bastano. Soprattutto c’è bisogno di una leadership illuminata ed illuminante in grado di coinvolgere tutti gli stakeholders necessari. Tutti quanti. È necessario stipulare il contratto sociale con le democrazie europee, sulla scia di Hobbes e Locke, e riguadagnarsi la massima fiducia dei cittadini.

Sarebbe utile aumentare le occasioni di confronto, al fine di rendere più chiare le ragioni di talune scelte politiche che possono apparire impopolari nel breve termine, ma vantaggiose nel medio/lungo periodo. Incrementare i contatti e i processi “bottom up”, de-tecnocratizzarsi, assumere un approccio Glocal, win-win tra globalizzazioni e potenzialità locali. Difficile ma non impossibile trovare la strada; semplice è arroccarsi su idee e soluzioni passate per pigrizia, timore, mancanza di coraggio e leadership.

L’indebolimento economico e sociale della classe media tende ad allontanare i cittadini dalla politica. La società diventa più polarizzata e, se gli ascensori sociali (meritocrazia) non funzionano, si può deviare verso forme plutocratiche (così sostiene anche Plender nelle conclusioni del suo libro). La sensazione di emergenza socioeconomica e di diminuita sicurezza favorisce il leader di emergenza. Si tratta di una leadership di comando[3], che può portare alla figura del tiranno: l’uomo forte, l’uomo in grado di rinegoziare quel contratto ponendo nuove condizioni. Pensiamo alla Turchia o al Venezuela, ma anche alle Filippine e ad altri Stati a trazione militare.

Veniamo all’Italia che vive una fase delicata: nelle ultime settimane la nazionalizzazione francese dei cantieri navali STX, “sottratti” alla perla italiana Fincantieri, e l’interventismo Francese in Libia hanno destato non poche preoccupazioni e dubbi. La ricerca di un equilibrio è difficile. Come indicato ultimamente da Marta Dassù[4] su La Stampa, bisognerebbe combinare “l’europeismo con la difesa attiva degli interessi nazionali” e, aggiungiamo, spiegare che gli interessi dell’Italia nel Mediterraneo sono gli stessi dell’Europa. Soprattutto in vista di un possibile “sganciamento” inglese (in rotta verso il Pacifico e proiettato nell’anglosfera) e un maggiore coinvolgimento di Russia e di nuovi attori nella parte Est (a seguito delle attuali e potenziali scoperte di gas).

Se la leadership europea fallisce in quanto non all’altezza di queste sfide, correremo il rischio di regredire.

Concludiamo con Churchill che sulla democrazia diceva: “È la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora”.

[1]Globalisation: the rise and fall of an idea that swept the world https://www.theguardian.com/world/2017/jul/14/globalisation-the-rise-and-fall-of-an-idea-that-swept-the-world?CMP=share_btn_tw

[2] http://www.econopoly.ilsole24ore.com/2017/06/07/in-italia-quella-dei-migranti-ormai-e-unindustria-e-vale-oltre-4-miliardi/

[3]YUKL G., 2008. Leadership in Organizations,7th edition. Prentice Hall.

[4]Un diverso approccio all’Europa. http://www.lastampa.it/2017/07/28/cultura/opinioni/editoriali/un-diverso-approccio-alleuropa-4ejfwUPgriVvxdw6zxpwYO/amphtml/pagina.amp.html

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