La fine del mondo liberale e le politiche monetarie in Cina

October 16, 2023

Economia

– di Paolo Balmas –

Lo stato che interviene per bloccare la decisione degli azionisti di maggioranza di una società come Pirelli (ora di proprietà cinese) è un’operazione di fondo “illiberale”. L’Occidente ha sempre contestato questo tipo di interventi come se fossero afferenti a un capitalismo autoritario, di stato, principalmente riferendoci alla Cina. Sorge la domanda se l’Europa capitalista e liberale agisce così perché è debole, così fragile che ha bisogno di ricorrere a espedienti contrari ai propri principi?

La decisione si basa su ragioni di sicurezza, un’interpretazione più ampia dei bisogni di monitorare gli investimenti indiretti stranieri, soprattutto cinesi, volti ad acquistare asset strategici in Europa. Se non è una forma di debolezza ricorrere a tali espedienti, allora si tratta di un sintomo più profondo, qualcosa che suggerisce che il sistema si sta sgretolando, ovvero ci avviciniamo alla fine del mondo cosiddetto liberale. L’utilizzo dei meccanismi di screening per evitare che la Cina, o la Russia, acquistino porzioni di imprese europee non è altro che la fine di un’era. Secondo i diretti interessati, cioè i paesi che indichiamo come illiberali, le manovre sono dirette a mantenere i privilegi dei paesi occidentali, primi fra tutti gli Stati Uniti, che possiedono una grande porzione dell’economia europea. In questo senso, allora, l’obiettivo sarebbe di creare una sfera di matrice liberale al proprio interno, in cui chi non è ben venuto non può entrare (oppure può, ma sotto precise condizioni e limiti di quantità che non hanno nulla a che vedere con la libera competizione economica fra pari). Insomma, si delinea una transizione dalla globalizzazione a una sorta di seconda guerra fredda.

Gli investimenti diretti degli Usa in Europa hanno superato i quarantamila miliardi di dollari nell’ultimo quarto di secolo. In confronto la Cina ha investito nello stesso periodo circa cinquecento miliardi di dollari, di cui la maggior parte in infrastrutture. Si potrebbe dire che l’Europa dipende dagli investimenti provenienti dagli Usa e senza di questi non sarebbe possibile andare avanti. La vendita di obbligazioni, di azioni, di imprese, di terreni, palazzi e strutture turistiche, non potrebbe essere sostenuta senza un’economia così in espansione come quella statunitense. L’Europa, come del resto l’Italia, sono in vendita. Negli ultimi anni la vendita degli asset europei ha permesso l’ingresso di capitali e la creazione di benessere per alcuni. Queste dinamiche rientrano in meccanismi ben più vasti e profondi. Il deficit della bilancia è necessario per espandere l’uso della propria moneta all’estero, quindi per influenzare (a volte controllare) i mercati internazionali attraverso le proprie politiche monetarie. È naturale che l’espansione della bilancia degli Usa sia in espansione da quando è divenuta la potenza dominante sul pianeta, come è naturale che l’Europa sia (stato) il mercato che ha attratto la maggior parte dei capitali americani.

Le politiche monetarie in Cina, a ben vedere, stanno sostenendo l’economia interna e non sono assolutamente dirette a sfidare il dominio del dollaro e degli Stati Uniti sul piano internazionale come molti si ostinano a sostenere. Il problema è sempre lo stesso: rischiare di non comprendere la Cina. Malgrado il continuo aumento degli investimenti diretti cinesi all’estero, la Cina non sta pianificando il deficit della propria bilancia. La Banca del Popolo (banca centrale cinese) continua a intervenire per stimolare i consumi interni, per mantenere viva la creazione del credito da parte delle banche commerciali, specialmente in un momento di quasi saturazione del mercato immobiliare. I tassi di interesse sono agevolati per permettere alle banche di scambiare denaro nel mercato interbancario e di elargire credito a piccole e medie imprese e alle famiglie che vogliono acquistare una casa. Le agevolazioni per la prima casa crescono, mentre nei paesi a cavallo del nord Atlantico i tassi sui mutui crescono, provocando insolvenza su vari piani e rischiando di far pagare alle famiglie case che valgono meno dei debiti contratti. In modo diverso, Cina, Stati Uniti e Unione Europea affrontano problemi simili provocati da cause diverse. Tuttavia, i meccanismi che si trovano alla base dei diversi sistemi economici sono in fin dei conti uguali, cioè si fondano sulla creazione del credito da parte delle banche commerciali.

Le manovre cinesi sono volte principalmente a mantenere in vita i governi locali, fortemente indebitati. La Cina non si può permettere una divergenza troppo profonda fra i rendimenti dei titoli di stato e quelli dei governi provinciali e cittadini. Le manovre non sono quindi solo volte ad agevolare la produzione di mutui per le famiglie e la liquidità per specifici settori (le banche di investimento di Wall Street hanno recentemente aumentato le stime di crescita economica cinese per il 2023), ma anche a mantenere attivi i meccanismi di rifinanziamento del debito locale. È così che la Banca del Popolo ha deciso di iniettare un equivalente di circa quaranta miliardi di dollari nel sistema finanziario e di mantenere i tassi di interesse bassi, al 2,5% (negli Usa siamo al 5,5%, con i tassi per i mutui che raggiungono quasi l’8%). Lo stato cinese interviene anche direttamente sui governi locali per sostenerli mettendo a disposizione mille miliardi di yuan (circa 140 miliardi di dollari) per rifinanziare i debiti nascosti (di cui Transatlantico.info si è interessato in passato). E ancora, il governo cinese sta decidendo di intervenire con uno stimolo di altri mille miliardi di yuan per sostenere gli investimenti in infrastrutture (se tale intervento sarà effettuato sotto forma di garanzia governativa, non sarà altro che un sostegno al credito creato dalle banche commerciali). L’intervento diretto dello stato in questioni economiche è in crescita anche nella sfera nordatlantica, con la differenza che qui implica un cambio di rotta in termini di globalizzazione e, sotto certi aspetti, consiste in una contrazione del sistema liberale, almeno come è stato descritto sin dalla fine della prima guerra fredda. Questo cambiamento è stato interpretato da varie prospettive, fra cui il neomercantilismo, il ritorno a Westfalia, una riconfigurazione delle catene di valore e approvvigionamento, la ricostruzione della perduta classe media nei paesi più avanzati, la minaccia cinese e lo scoppio della seconda guerra fredda, e altre ancora. Ciò che si tende a sottovalutare è la natura “illiberale” delle decisioni prese sull’onda dei cambiamenti in Europa, che a lungo andare entreranno in conflitto con gli stessi principi su cui è stata fondata l’Unione Europea. È chiaro che per una serie di motivi che si accavallano, a partire dalle nuove politiche interventiste degli stati membri spesso stimolate dalla Commissione, fino alle divergenze sul piano della trasformazione delle politiche energetiche e industriali, si possono intravedere le condizioni che plasmano il futuro dibattito sulla revisione dei Trattati dell’UE. Le preoccupazioni sono molteplici, dalle guerre che circondano lo spazio dell’Unione, al ritrovarsi schiacciati in un confronto fra Usa e Cina dai toni sempre più aspri. Non è da sottovalutare, inoltre, lo spettro di una perdita di significato fra “liberale” e “autoritario”.

– Newsletter Transatlantico N. 29-2023

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