US Capitol Congress

L’America dopo le mid-term

November 7, 2022

Politica

Domani si vota per le elezioni di metà mandato negli Stati Uniti. Si rinnova l’intera Camera dei Rappresentanti, 34 seggi al Senato, e numerosi governatori e assemblee dei singoli stati. I sondaggi e gli analisti hanno raccontato tre fasi diverse di questa campagna elettorale: quella della primavera, quando tutti erano convinti della conferma della tendenza storica di una vittoria netta per il partito d’opposizione, e quindi una perdita consistente di seggi per il partito democratico di Joe Biden; una seconda fase, di speranza per i democratici dopo la decisione della Corte Suprema di rimuovere la protezione costituzionale per l’aborto e di rimettere le decisioni in merito ai singoli stati; e la terza, dell’autunno fino a questi giorni, in cui lo slancio dei repubblicani sembra essere tornato.

Ad oggi la situazione pare relativamente chiara: la Camera andrà quasi sicuramente ai repubblicani, mentre il controllo del Senato si gioca in pochi stati – Nevada, Georgia, Pennsylvania in primis, ma anche altri stati potrebbero entrare in gioco se i repubblicani dovessero fare meglio di quanto previsto dai sondaggi, sempre possibile come si è visto negli ultimi anni. Dato il numero limitato di contese che determineranno l’equilibrio nella Camera alta, alla fine potrebbero essere poche migliaia di voti ad essere decisivi. Per questo non dovrebbe sorprendere se ci trovassimo in una situazione simile a due anni fa, aspettando giorni o anche settimane mentre si fanno riconteggi e ballottaggi, e si finisce in tribunale per contestare i risultati risicati (diventata una vera e propria strategia a livello locale).

Tuttavia, la questione non è se i repubblicani guadagneranno seggi in queste elezioni di mid-term, ma quanti. E i motivi per questa vittoria annunciata – che potrà essere solo parziale o totale, se dovessero prendere anche il Senato – vanno esaminati per capire come affrontare i prossimi anni nella politica americana. I temi a breve termine – inflazione, aborto, criminalità – sono sì importanti, ma spesso solo come riflessi superficiali di problemi più profondi, che vengono affrontati da una minoranza del mondo politico. E queste elezioni rappresentano in un certo senso una prova del teorema dei “fondamentali”; cioè, che sono le correnti più a lungo termine che guidano le elezioni, e che gli altri fattori possono sì influire, ma difficilmente sono in grado di cambiare la traiettoria generale. Cioè, cercare di spostare l’attenzione degli elettori dalle condizioni socio-economiche del paese, la cui responsabilità è attribuita al partito al governo, è sempre attraente, ma è anche rischioso se si omette di ingaggiare il nemico su questo terreno.

In un certo senso, i democratici hanno già perso questa sfida. Se durante l’estate la questione dell’aborto e le audizioni al Congresso sugli eventi del 6 gennaio 2021 avevano convinto i democratici di avere dei temi vincenti, che potevano aiutarli ad andare in controtendenza e limitare le perdite nel voto di novembre, nelle ultime settimane si è visto un cambiamento netto dell’approccio: si è dato più risalto alle questioni economiche, riconoscendo che di fatto si era lasciato il campo ai repubblicani sui temi che sono in cima alle preoccupazioni degli elettori.

Bernie Sanders ha suonato la carica ad ottobre, e i vertici del partito hanno deciso che era ora di affrontare i repubblicani direttamente sull’economia: qualcuno seguendo l’esempio di candidati come Tim Ryan dell’Ohio e Michael Bennet del Colorado che si concentrano sugli effetti disastrosi del neoliberismo, e altri cercando di dimostrare che una bella fetta della dirigenza repubblicana ha intenzione di tornare subito alle pessime idee del passato, chiedendo tagli allo stato sociale (Social Security e Medicare) e minacciando di mandare lo stato in default se non riusciranno ad avere quello che vogliono. E’ una strategia intelligente da parte dei democratici, che forse può salvare qualche candidato, ma arriva tardi rispetto ad un anno in cui i democratici si sono concentrati principalmente su altro. Per capire l’entità del problema, quest’anno i democratici hanno speso circa 320 milioni di dollari su spot pubblicitari che parlano dell’aborto, più di 10 volte i 31 milioni di dollari per spot che affrontano il tema dell’inflazione.

Vista l’alta probabilità per i democratici di perdere il controllo di uno o entrambi i rami del Congresso, a questo punto occorre chiedersi quali saranno le conseguenze per le politiche pubbliche nel paese nei prossimi due anni, prima delle nuove elezioni del Congresso e anche del presidente nel 2024.

Va detto che in termini legislativi in realtà la strada è già tracciata. Biden e il suo partito hanno avuto un discreto successo in questa prima metà del mandato, con i pacchetti di aiuti economici, compresi gli investimenti nelle infrastrutture e l’espansione delle nuove politiche industriali, seppur parziali rispetto ai bisogni del paese. Gli effetti di questi successi si vedranno ancora nei prossimi anni, ma in ogni caso la finestra di opportunità per altre iniziative in questo senso si era già chiusa, a causa di differenze interne al partito e anche dell’aumento dell’inflazione. La dinamica dei prezzi ha convinto molti che occorre limitare le spese per non alimentare un ulteriore crescita del costo della vita, anche se molti dei fattori dietro l’inflazione sono più strutturali e a lungo termine, dalle crisi internazionali alla necessità di ricostruire la base produttiva e riorganizzare le filiere per poter sostenere i bisogni legittimi di un’economia industriale con una classe media e bassa che ha visto l’erosione del proprio potere d’acquisto nello spazio di decenni.

Dunque in ogni caso la Casa Bianca avrebbe poche possibilità di varare nuovi pacchetti di spesa. Se i repubblicani avranno il controllo del Congresso cercheranno sicuramente di ottenere dei tagli al bilancio, come si è visto in passato quando il presidente Obama dovette trattare con i repubblicani dopo una sconfitta enorme nelle mid-term del 2010 (i democratici persero 63 seggi alla Camera e 6 al Senato). Sarà interessante vedere se l’ala “populista” del partito repubblicano si farà sentire ancora sul tema della ricostruzione della base industriale in chiave anti-globalizzazione. Per ora questa fazione sembra aver perso lo slancio in questo campo che era più evidente qualche anno fa, preferendo attaccare i democratici su temi culturali ma anche abbracciando la battaglia trumpiana sulle elezioni del 2020.

Una Camera repubblicana inizierebbe sicuramente una serie di inchieste sull’amministrazione Biden e sul presidente stesso, partendo dagli affari dubbiosi di suo figlio Hunter, per esempio in Cina. Da questo punto di vista il clima politico diventerà di nuovo incandescente, anche se di fatto sarà uno spettacolo secondario rispetto alle misure che possono influenzare o meno la traiettoria fondamentale del paese.

Al Senato lo scontro potrebbe essere più consequenziale. Con la maggioranza i repubblicani sarebbero in grado di bloccare le nomine fatte dalla Casa Bianca, per esempio per i giudici delle corti federali. Si tratta in molti casi di incarichi a vita, che hanno un forte impatto sul paese a livello cumulativo. L’efficacia della strategia repubblicana in questo campo è ben evidente già oggi, con la supermaggioranza alla Corte Suprema frutto proprio della gestione spietata del processo delle nomine negli ultimi anni.

Sulla politica estera il Congresso influisce meno, anche se si profila una crescita della finora limitata opposizione agli aiuti all’Ucraina nella guerra contro la Russia. Il repubblicano Kevin McCarthy, probabile presidente della Camera da gennaio, ha già detto che non ci saranno più “assegni in bianco” per Kiev, un conflitto percepito dagli elettori come lontano con costi troppo alti rispetto alle esigenze interne. Aumenterà il numero di deputati conservatori che abbracceranno questa linea, rendendo la vita più difficile per il presidente quando chiederà l’approvazione di nuovi aiuti.

Non significa, però, un cambiamento di rotta delle istituzioni di Washington. Quando Casa Bianca, Pentagono e CIA sono tutti concordi nella linea da seguire in politica estera difficilmente si riesce a fermarli; ma non si potrà continuare con la stessa strategia degli annunci pubblici continui di fornitura di armi e fondi, e la (parziale) opposizione al Congresso potrà rappresentare un elemento aggiuntivo nel contesto del graduale aumento di pressioni sull’amministrazione Biden di cominciare seriamente a cercare una soluzione diplomatica nei confronti della Russia.

Infine c’è la questione della campagna presidenziale del 2024, che di fatto comincerà quasi subito dopo le mid-term. Questa tornata elettorale è importante in particolare per il posizionamento di Donald Trump nel prossimo anno. Se dovesse vincere buona parte dei candidati da lui sostenuti risulterà più forte in vista delle prossime primarie. Trump in queste settimane fa capire che intende candidarsi, che va letto in due modi: primo, come una risposta alle crescenti pressioni giudiziarie, dai tribunali e anche dalla Commissione d’inchiesta del Congresso sul 6 gennaio 2021; e secondo, come un tentativo di anticipare le mosse di Ron DeSantis, governatore della Florida le cui ambizioni di arrivare alla Casa Bianca sono evidenti.

Molti funzionari e sostenitori del partito repubblicano sono pronti a lasciare Trump nel passato, e le istituzioni profonde del paese non hanno nessuna intenzione di permettere un suo ritorno a Washington; ma la crescita della fazione favorevole all’ex presidente nelle mid-term potrebbe rendere più difficile la transizione.Intanto, a prescindere dai candidati che saranno scelti per il 2024, si pone il tema della solidità del meccanismo democratico. La vittoria a livello nazionale e soprattutto locale, nelle amministrazioni statali, di numerosi sostenitori delle contestazioni trumpiane alle elezioni del 2020 significherà un aumento della probabilità di una vera crisi costituzionale tra due anni in caso di un voto sul filo del rasoio. Il Congresso avrà poche settimane, nella sessione “anatra zoppa” prima dell’insediamento dei nuovi eletti a gennaio, per affrontare questo rischio a livello legislativo. L’intenzione c’è, ma il clima politico potrebbe essere infuocato già dal 9 novembre, mettendo in dubbio l’effettiva riuscita della soluzione che si sta preparando attualmente al Senato.

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