Draghi, il Quirinale e l’Europa

December 11, 2021

Politica

(free) – “Draghi o il caos. La grande disgregazione: l’Italia ha una via d’uscita?” Lodovico Festa e Giulio Sapelli. Guerini e associati, Milano, novembre 2021.

– di Andrew Spannaus –

Le danze della politica italiana in merito alla scelta del prossimo Presidente della Repubblica girano tutte intorno ad una questione centrale: mandare Mario Draghi al Quirinale, oppure creare una convergenza su un’alternativa valida che permetta la sua permanenza a Palazzo Chigi. E’ inutile negarlo: da qualche anno Draghi punta ad essere eletto alla massima carica dello Stato, e non mancano i rumors che dicono che gli è stata anche promessa dai partiti all’inizio dell’anno. Ora che i leader politici insistono che dovrebbe rimanere a capo del governo, sembra più che altro confermare le intenzioni contrarie del diretto interessato.

Per capire se i partiti riusciranno a fermare la marcia di Draghi verso il Colle bisognerà aspettare la fine di gennaio, consci che il dibattito pubblico in materia è spesso una cortina di fumo che nasconde le vere intenzioni. Nel frattempo, più che seguire le piroette quotidiane, occorre prima di tutto chiedersi cosa serve all’Italia in questo momento, se Draghi presidente è nell’interesse del Paese, oppure se effettivamente dovrebbe rimanere a Palazzo Chigi più a lungo possibile per gestire la situazione attuale.

Questo è quanto hanno fatto Lodovico Festa e Giulio Sapelli nel loro ultimo libro “Draghi o il caos”, uscito per le stampe di Guerini e Associati poche settimane fa. Il titolo potrebbe sorprendere, conoscendo le critiche mosse in passato al ruolo delle banche centrali e della finanza espresse per esempio da Sapelli. Ma l’argomento è presentato in modo convincente: gli autori indicano l’elezione di Draghi al Colle come un ritorno alla politica, una ricostruzione della legittimazione delle istituzioni che potrà inaugurare una nuova stagione per il Paese.

Rimangono, tuttavia, alcuni assunti che sono tutti da verificare. Difatti bisogna chiedersi se Mario Draghi, con la sua autorevolezza a livello europeo, si sia definitivamente trasformato in un grande asset nazionale – rispetto al ruolo svolto 10 anni fa nell’inaugurare la stagione dell’austerità in Italia – tale da essere il garante di una stagione di ricostruzione della politica interna, e anche di potenziamento vero del ruolo internazionale del Paese.

E’ dalla necessità di “riprendere il cammino della politica” dopo una fase che gli autori definiscono come “la grande disgregazione”, che parte il libro. Il processo viene tracciato nel tempo, identificando caratteristiche e problemi risalenti all’unificazione della nazione, per poi arrivare a vari errori e personaggi politici degli ultimi decenni del novecento.

In modo particolare, si identifica la fase che parte all’inizio degli anni Novanta, con una parte della magistratura che voleva “realizzare gli ideali della Costituzione prescindendo dal Parlamento”, e poi gli “impreparati ma potenti banchieri centrali” che hanno inaugurato la trasformazione del paese in quegli anni, fino all’arrivo dei compradores che l’hanno poi attuata.

Il punto alto della disgregazione su cui si concentrano Festa e Sapelli è il periodo 2010-2020, il “commissariamento” come viene definito con un apposito capitolo, in cui il governo di Mario Monti genera una rottura sociale i cui effetti si susseguono nel tempo, portando ad “una travolgente spirale disgregatrice delle istituzioni”. Qui troviamo riferimenti alle forzature del Quirinale durante i settennati di Giorgio Napolitano e anche di Sergio Mattarella, che vanno di pari passo con l’instabilità e la perdita di legittimazione delle istituzioni politiche, come anche della capacità di mediazione dei partiti di fronte agli effetti profondi del sistema economico neoliberale.

Gli autori non sottoscrivono la narrazione superficiale della necessità di sconfiggere i populismi, di contrastare i barbari che hanno criticato le istituzioni negli ultimi anni; piuttosto ci dicono che è urgente integrare queste forze nella dialettica nazionale, non solo per ricostruire il legame tra politica e società in Italia, ma anche per costruire una base legittima e democratica per le istituzioni europee. Ed è proprio qui che arrivano al ruolo di Mario Draghi, visto come il personaggio giusto per fare da garante per gli impegni presi dall’Italia (Recovery Fund) e per “consolidare il nuovo ruolo che l’Italia ha assunto sullo scenario internazionale grazie alla sua persona”.

Insomma, Draghi ha rimesso il Paese in gioco, e la sua autorità va spesa in un ruolo di garanzia. Ma qui la motivazione diventa interessante: Draghi non va promosso semplicemente per evitare che si logori pesantemente durante un anno pre-elettorale, ma soprattutto perché all’Italia serve ritornare alla politica, serve ricostruire il rapporto tra le istituzioni e la società, e questo – evidentemente – non si può fare con il prolungamento di un periodo di gestione tecnica. Con una presidenza Draghi di garanzia, si potrà formare invece un governo con un netto mandato popolare, e cominciare a rimediare alla grande disgregazione descritta nel dettaglio da Festa e Sapelli.

In questo modo, la valutazione sulla collocazione di Mario Draghi viene inquadrata in un contesto più ampio, quello di una crisi che deve essere affrontata non semplicemente per raggiungere alcuni risultati economici, e tanto meno per gli interessi a breve termine delle diverse parti politiche, ma per permettere la ricostruzione di una base di legittimità delle istituzioni politiche del Paese, che – nei fatti – richiede la rimozione di Draghi dalla posizione di capo di governo, per spostarlo in un ruolo di garanzia.

Ora, dopo aver riconosciuto l’importanza delle argomentazioni presentate in merito al ristoro del processo democratico-istituzionale in Italia, occorre porre qualche domanda, perché come gli autori stessi riconoscono, anche il percorso delineato dagli stessi è pieno di rischi. La domanda principale, agli occhi di chi scrive, è la questione del modello economico e politico dell’Europa, che Mario Draghi dovrebbe aiutare a consolidare, questa volta con un ruolo maggiore per l’Italia rispetto al passato.

Si può certamente riconoscere l’utilizzo positivo fatto da Draghi della Banca centrale europea per la stabilizzazione del debito pubblico sui mercati finanziari, e quindi il suo ruolo come oppositore di fatto delle posizioni più rigide a favore dell’austerità a livello europeo. Ma su questo tema non si può dimenticare la carriera di Draghi fino a non tanti anni fa, dalle privatizzazioni degli anni Novanta fino alla famigerata lettera della Bce all’Italia nel 2011. E’ in quel momento, l’inizio della disgregazione acuta di cui parla il libro, che Draghi stila insieme a Jean-Claude Trichet una lista di misure che riflettono appieno gli obiettivi neoliberali. Tali misure, attuate in parte dai tecnici del governo Monti, acuiscono pesantemente le difficoltà del Paese sia a livello economico (con un crollo del Pil rafforzato brillantemente da tagli al bilancio e nuove tasse), sia a livello politico, di cui gli autori parlano a lungo. Si tratta di una lettera che, tra l’altro, richiedeva al Governo italiano di agire rapidamente, per decreto e quindi scavalcando il parlamento e l’opinione pubblica per quanto possibile. Tutto questo con lo scopo dichiarato (due volte nella lettera) di tranquillizzare i mercati finanziari, non di aiutare gli italiani.

Certo, si tratta di storia antica ormai, e Draghi adesso si presenta come l’uomo della spesa pubblica buona, degli investimenti, delle riforme che potranno modernizzare il Paese in un momento in cui bisogna dare, non togliere. Ma la domanda è d’obbligo: la concezione neoliberale che ha guidato i tecnici negli ultimi trent’anni è davvero scomparsa?

Sul fronte della spesa pubblica, la battaglia è aperta tra chi vuole ripristinare al più presto le regole di bilancio e chi spinge per mantenere una certa misura di flessibilità; ma quando Draghi stesso dice che il debito pubblico dovrà essere ripagato dai nostri figli rafforza l’idea che non si tratti di una nuova corsa, ma piuttosto di un periodo straordinario che rappresenta solo la sospensione temporanea del rigore. (La realtà – come spiegato in altre sedi – è che il debito pubblico non va mai ripagato, ma solo gestito con una banca centrale efficace nell’ottica di garantire la crescita dell’economia reale).

Si è fatto un passo significativo con il Next Generation EU, facendo debito europeo comune per finanziare la ripresa, ma nei fatti si anticipano semplicemente le spese dello Stato, in quanto si ripagherà tutto negli anni a venire. E le conseguenze non sono piccole: le decisioni vanno prese sotto la tutela della Commissione Europea, con le sue raccomandazioni specifiche e i principi di finanza pubblica ormai sanciti nei trattati europei, compresi quelli più ottusi come il Fiscal Compact.

Si potrà sperare che la ricostruzione della vita politica, del legame tra istituzioni e società, significherà che queste regole tecniche non saranno più il Vangelo, che ora anche l’Europa dovrà adeguarsi alla nuova realtà e cambiare concezione. Sapelli e Festa invocano apertamente una svolta di questo tipo, riconoscendo che la struttura europea attuale non permette di creare la crescita; chiedono cambiamenti a livello europeo, con il coinvolgimento democratico del popolo italiano che deve pronunciarsi su di essi. Obiettivi assolutamente condivisibili, ma che non sembrano sull’agenda nel breve periodo.

Come abbiamo visto durante il mandato di Mattarella, se la cornice istituzionale inderogabile è quella europeista, fino al punto che le critiche o anche solo la discussione di una strada alternativa (si veda il caso Savona) sono vietate per chi vuole stare nell’arco governativo, allora occorre quasi un atto di fede per immaginare uno scenario in cui si risolvono senza traumi i profondi problemi sostanziali della politica europea comune. Finora – infatti – l’unica cosa che ha costretto l’Europa a cambiare è stata la pandemia. Il rischio molto concreto è che l’effetto principale di questa fase di emergenza sia la maggior centralizzazione delle decisioni a livello sovranazionale, mentre l’allontanamento (parziale) dalla visione neoliberale rimanga solo una deroga temporanea. Uno scenario diverso, fatto di legittimazione democratica e correzioni profonde alle storture neoliberali degli ultimi decenni, è sicuramente auspicabile, ma tutto da costruire.

– Newsletter Transatlantico N. 37-2021

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