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Il Covid-19 cambia il rapporto fra Usa e Cina?

April 24, 2020

Economia, Strategia

(free) – di Paolo Balmas –

In questi giorni, assistiamo a una gara di soft power fra la Cina e gli Usa. La prima cerca di dimostrare al mondo quanto sia un partner affidabile e quanto la salute dei suoi partner commerciali le stia a cuore, inviando aiuti sanitari a vari paesi in Occidente. Il messaggio è chiaro: siamo amici, continuiamo a fare affari insieme. Meno esplicito, ma altrettanto chiaro: se la Cina aiuta paesi del G7 come l’Italia, forse non è più un paese in via di sviluppo o un’economia emergente. Forse è una potenza mondiale che propone un sistema capitalista alternativo a quello del Novecento atlantico. Gli Usa, invece, in particolare attraverso le posizioni del presidente Trump, accusano la Cina di aver tenuto nascosta la pandemia per circa una settimana. Questa accusa implica una visione della gestione della crisi in Cina tipica di un regime, specialmente di un regime comunista. Da questa accusa partono gli studi dell’intelligence militare del Pentagono che cercano di capire se il virus sia stato sviluppato in un laboratorio o sia di origine naturale. Per il momento non ci sono prove sufficienti per dire che il virus sia stato costruito in laboratorio. Dalla stessa accusa, emergono problemi fra i paesi del G7, che non riuscivano a siglare un documento congiunto sul Covid-19, perché gli Usa volevano definirlo ufficialmente il “Virus di Wuhan” (questione in seguito smentita del Segretario di Stato, Pompeo). Più lampanti emergono gli attriti fra l’Amministrazione Trump e l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), accusata di essere filo-cinese.

Da un punto di vista geopolitico, ci si chiede se la Cina sarà la vincitrice, se emergerà con una nuova posizione rafforzata dalla pandemia in corso. Ma come può la pandemia aiutare la Cina a rafforzare la propria posizione nel mondo? Le previsioni catastrofiche per la produttività mondiale nel 2020 non sembrano risparmiare la Cina. S&P segnala la Cina come principale vittima dal punto di vista della crescita del Pil in Asia, seguita da Corea del Sud, Giappone e Vietnam, con l’India unico paese a crescere. Il WTO indica un calo degli scambi commerciali compreso fra il 13 e il 32%, con la Cina fra i principali paesi colpiti. Allora si tratterebbe di una posizione geopolitica rafforzata solo nell’immagine. Ma anche questo non sembra possibile, soprattutto ora che i cinesi sono stati descritti come mangiatori di pipistrelli che vivono sotto un opprimente sistema politico e causa di mesi di reclusione forzata per un terzo della popolazione mondiale. Una visione primitiva e superficiale, che invece potrebbe determinare la vittoria della Cina nel lungo termine, se continuiamo a non sforzarci di comprenderla.

La pandemia del Covid-19 si inserisce in un contesto geoeconomico e geopolitico in movimento, sotto nessun punto di vista statico. Prima della pandemia, stavamo assistendo a un “divorzio” fra gli Usa e la Cina, enfatizzato mediaticamente con i fatti relativi al 5G e alle sanzioni contro la cinese Huawei. Soprattutto, promesso dal presidente Trump ai suoi elettori con l’obiettivo di riportare le fabbriche sul suolo americano. Un movimento che richiede tempo e risorse, e tante attenzioni. Il Covid-19 si inserisce in questo contesto e ne diventa un acceleratore. Il Giappone si propone come primo paese a cogliere la palla al balzo e creare un pacchetto di stimolo, di cui circa 2,2 miliardi di dollari per aiutare alcuni grandi produttori a lasciare la Cina, con la scusa della pandemia. Tuttavia, il Giappone non è l’America e presenta problemi economici differenti dagli Usa. Fra gli obiettivi di Tokyo non vi è di certo il rientro dei complessi produttivi, una manovra che richiederebbe un forte aumento dell’immigrazione, data l’elevata età media della popolazione giapponese. Le fabbriche giapponesi preferiscono spostarsi in economie emergenti con un’immensa offerta di forza lavoro a basso costo come l’India (la Cina degli anni Ottanta, sulla carta ma probabilmente non nella realtà). Gli Stati Uniti, al contrario, non solo per i 22 milioni di disoccupati registrati negli ultimi due mesi, mostrano le condizioni per un potenziale rientro degli impianti produttivi.

Le cause dei movimenti geoeconomici, tuttavia, non cominciano pochi mesi fa con la diffusione del Covid-19. Sono più lontani e profondi e direttamente correlati alla trasformazione che la Cina sta vivendo negli ultimi anni. La Cina si sta rapidamente trasformando in una economia fondata, da un lato, sul consumo con un aumento sostanziale del potere di acquisto della vasta popolazione, e dall’altro, sulla produzione e l’esportazione di prodotti di qualità propri e non appartenenti a società straniere che hanno assicurato gli straordinari numeri dell’export cinese negli ultimi trent’anni. Il risultato è che il costo della manodopera in Cina sta aumentando e continuerà ad aumentare, insieme a una maggiore regolamentazione delle condizioni di lavoro. In altre parole, la Cina non conviene più all’Occidente, ma solo per quanto riguarda la produzione. Per il mercato interno dei consumi, la Cina sarà l’El Dorado di questo secolo. Tutto ciò è noto e il virus non lo ha cambiato. Anzi, alcuni dati recenti lo confermano. In questi giorni, grandi firme Usa stanno investendo centinaia di milioni per aumentare la loro presenza già vasta sui mercati cinesi. Walmart ha stanziato 425 milioni di dollari per aprire due “Sam’s Club” e 15 nuovi centri commerciali a Wuhan e due centri di distribuzione nella provincia del Hubei, dove possiede già 34 punti vendita. Starbucks ha lanciato un progetto da 130 milioni per un Coffee Innovation Park a pochi km da Shanghai, che prevede preparazione, stoccaggio e distribuzione dei suoi prodotti.

Questa generale tendenza a trattare la Cina come un mercato del consumo e non più come la fabbrica del mondo è in pieno atto da tempo. Così, la pandemia si trasforma in un semplice strumento. Da un lato non frena, forse semplifica, la possibilità di sfruttare la crescita dei consumi interni in Cina (almeno per attori già integrati come Walmart e Starbucks); dall’altro, aiuta i grandi produttori che sanno da molto tempo che questo momento (forza lavoro più costosa e più regolata) doveva pur venire un giorno. Per alcuni conviene spostarsi verso paesi che offrono (almeno in apparenza) le vecchie condizioni della Cina, soprattutto se si apre la prospettiva di utilizzare soldi pubblici per attutire i costi di trasferimento. L’India si presta a sostituire in parte la Cina, almeno per due motivi. Da un lato la popolazione in crescita è destinata a superare quella cinese nei prossimi anni, proprio quando la popolazione cinese comincerà a invecchiare; dall’altro, i piani di Modi per trasformare alcune regioni dell’India in hub industriali offrono grandi incentivi alle imprese delle grandi potenze economiche.

In questo stato di cose, il fondo di oltre due trilioni di dollari stanziato dall’amministrazione Trump per affrontare l’emergenza pandemica potrebbe aiutare il rientro dalla Cina degli impianti produttivi negli Usa. Tuttavia, se si considera come principale motivo dello spostamento il cambiamento economico in Cina, ovvero un aumento dei costi e della regolazione della manifattura, ci si chiede di quali incentivi gli industriali americani sono in cerca e cosa si aspettano dall’Amministrazione. Chiaramente, se gli Usa opteranno per usare i fondi antivirus per aiutare i produttori a spostarsi dalla Cina a un altro hub produttivo fuori del suolo americano (alla maniera giapponese), lo dovranno fare prestando molta attenzione a non destare sospetti in una parte crescente della popolazione portata quasi all’estremo. Si tratta di un problema più profondo ed esteso del Covid-19, che va anche ben oltre le prossime elezioni e un altro mandato presidenziale.

– Newsletter Transatlantico N. 13-2020

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