Il problema dell’Italia: l’austerità

January 27, 2014

Economia, Politica

Marco Fortis è vicepresidente della Fondazione Edison e professore a contratto di Economia Industriale e Commercio Estero presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università Cattolica di Milano. Martedì scorso a Milano il prof. Fortis ha presentato una serie di grafici che dimostrano molto chiaramente il problema principale dell’economia italiana: l’austerità.

Come vedremo sotto, è errato dire che l’Italia soffre la crisi più di altri per via della mancanza di competitività, e che per questo motivo il Paese deve fare le riforme strutturali per essere all’altezza degli altri. La realtà è che nonostante i numerosi problemi rappresentati per esempio dalla burocrazia inefficiente, dal sistema politico instabile e dalle infrastrutture spesso carenti, l’Italia sta ora soffrendo principalmente a causa della politica dell’austerità imposta dagli organismi sovranazionali; proprio quella politica che viene proposta come la soluzione dalla Bce, dal Fmi, ecc.

E non è tutto. La principale pecca italiana, l’enorme debito pubblico, è anch’esso un pretesto per imporre tagli e tasse, liberalizzazioni e privatizzazioni: dai grafici diventerà evidente come la misurazione del debito pubblico come percentuale del Pil falsa la realtà della stabilità del Paese, che in realtà ha visto crescere il proprio debito molto meno degli altri grandi paesi negli ultimi anni.

Guardiamo ora alcuni dei grafici gentilmente forniti dal prof. Fortis, per poi trarre delle conclusioni (nostre) in merito alla necessità di cambiare l’attuale impostazione della politica europea.

Il primo grafico dimostra il fatturato dell’industria italiana (escluso il settore dell’edilizia). Si vede che dopo la fase acuta della crisi internazionale nel 2008-2009, l’export (linea verde) è tornato ai livelli pre-crisi, mentre le vendite sul mercato interno (linea rossa) sono crollate a partire dalla metà del 2011, proprio quando comincia l’austerità “made in Europe”.

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I prossimi due grafici mostrano la grande differenza nell’andamento delle manifatture per il mercato interno e estero, paragonando gli indici con quelli della Germania e della Francia. Sul mercato interno (domestico) le manifatture italiane sono crollate rispetto a quelle degli altri due paesi, di nuovo a partire da metà 2011.

Nel secondo grafico si vede che per il mercato estero invece, i tre paesi si sono ripresi in modo molto simile, con l’Italia che va perfino un po’ meglio degli altri.

Indice di fatturato delle manifatture: mercato interno

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Indice di fatturato delle manifatture: mercato non-interno

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Dunque il crollo dell’attività economica in Italia avviene a partire dal momento in cui iniziano le megafinanziarie imposte dalla Bce – ricordiamo tutti la lettera dettagliata di Draghi. Con l’austerità iniziata alla fine del Governo Berlusconi e poi continuata con gusto da Mario Monti, le manifatture italiane sono scesi a livelli più bassi di quelli visti dopo il crac finanziario del 2008.

Non è un problema di competitività dell’Italia, o di un paese che non ha saputo reagire alla crisi. Si tratta semplicemente di una ricetta sbagliata applicata sotto pressioni esterne che ha portato a risultati disastrosi.

Il prof. Fortis sottolinea la forza delle esportazioni italiane in generale. L’Italia infatti è il secondo paese più competitivo per le esportazioni a livello mondiale secondo l’indice UNCTAD/WTO (UNCTAD=Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo). E’ uno dei pochi paesi con la bilancia commerciale in attivo ed è leader in numerosi settori, non solo quelli più conosciuti come l’alimentare, l’abbigliamento e l’arredamento, ma anche in numerosi settori della meccanica e dell’ingegneria.

Come si sa, la motivazione data per la cura da cavallo applicata dal 2011 in poi parte tutta dal debito pubblico. L’Italia è da tempo una delle pecore nere in questa area, con un rapporto debito/Pil che ora va oltre il 130%. Anche qui però il prof. Fortis fornisce una prospettiva diversa, mostrando che mentre il debito è sì alto, è anche vero che è cresciuto poco negli ultimi anni – la percentuale è aumentata grazie al calo del Pil – e che non ha molto senso misurare il debito rispetto al Pil; piuttosto bisogna guardare il patrimonio finanziario del Paese.

Il seguente grafico mostra che il debito pubblico italiano è quello che è cresciuto meno dallo scoppio della crisi in Europa, a parte il caso della Svezia.

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Dunque il debito della Germania, della Francia, della Gran Bretagna (e anche degli Stati Uniti) è aumentato molto di più, principalmente a causa dei salvataggi bancari e altre misure per contrastare la crisi. Inoltre, se guardiamo i livelli monetari (aggregati) del debito pubblico dei vari paesi, notiamo che quelli di Francia, Germania e Italia sono ora molto simili.

Il prof. Fortis presenta il patrimonio finanziario netto del settore privato – inteso come le famiglie e le società – per dimostrare la base solida su cui poggia il debito pubblico. Nella sua interezza l’Italia non è un paese indebitato, è un paese con risparmio e ricchezza finanziaria abbondanti. Certo, entrambe queste voci stanno ora diminuendo rapidamente, ma è a causa proprio della “cura” che si sta applicando, che ha distrutto circa il 20% della produzione industriale italiana.

Il grafico mostra il debito pubblico in mani agli stranieri, paragonato al patrimonio finanziario del settore privato.

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La soluzione?

La constatazione del disastro provocato dalla politica di austerità porta alla domanda più profonda: perché si persegue questa politica, che sta distruggendo non solo l’Italia, ma anche numerosi altri paesi? E quali possibilità ci sono per cambiarla?

Da una parte di tratta di un errore enorme, risultato di un’ideologia economica che è tanto diffusa quanto sbagliata. L’idea che l’economia di una nazione si possa risanare tagliando il bilancio pubblico e tassando la cittadinanza, soprattutto in un momento di crisi, è semplicemente contraria alla realtà. La spesa pubblica, piaccia o meno, funge da stimolo per l’economia. E’ indubbio che esistono spese improduttive e che occorre riformare certi settori dello stato per renderli più efficienti. Ma agire con l’accetta non funziona mai. Provoca semplicemente perdita di potere di acquisto e paura nella popolazione.

Se a questo aggiungiamo un aumento continuo delle tasse è evidente che i consumi si fermano. Che senso ha portare via i risparmi delle famiglie e deprimere la spesa privata quando si sta tentando di sistemare i conti?

Naturalmente non si intende che l’economia può andare avanti solo con le spese dei consumatori, e nemmeno con una spesa pubblica indiscriminata. Il rischio di creare bolle basate sul debito è evidente, mentre la mancata distinzione tra investimenti produttivi e non-produttivi è alla radice dei problemi sviluppatisi negli ultimi decenni.

La tesi dell’errore però non è sufficiente, perché come ama ricordare Paul Krugman i grandi teorici dell’austerità sembrano essersi nascosti di recente. E’ diventato evidente a chiunque non abbia i paraocchi che l’austerità sta provocando disastri, eppure si va avanti sulla stessa strada, apparentemente incapaci di cambiare. Pare che al livello più alto vada bene così, si intende prolungare la sofferenza della popolazione per indebolire gli stati nazionali, nell’ottica dell’aumento dei poteri di un élite che si preoccupa soprattutto di mantenere la propria capacità di influenzare gli eventi mondiali.

E’ in questa ottica che occorre guardare la politica attuale dell’Unione Europea. Si parla molto della necessità di battere i pugni sul tavolo, di farsi sentire a Bruxelles, ecc. Ma anche nel migliore delle ipotesi si punta a qualche deroga sui parametri monetari, o a qualche iniziativa comune tipo gli Eurobond per finanziare i progetti europei. Il problema è che la politica dell’austerità non è semplicemente una risposta temporanea alla crisi dell’Euro di questi ultimi anni; piuttosto è una concezione profonda che sottintende l’intera costruzione europea dal Trattato di Maastricht in poi. Si è messo il pareggio di bilancio nelle costituzioni, si è costruito un sistema intero basato sul divieto di ogni intervento pubblico nell’economia. Si è tolto agli stati nazionali la possibilità di fare politica industriale. Come si può pensare di abbandonare gli errori attuali senza un cambiamento fondamentale nelle regole economiche attuali?

Un’ulteriore dimostrazione – spaventosa – del problema si ha con il Fiscal Compact, il trattato che obbliga gli Stati membri a ridurre il debito pubblico al 60% del Pil entro 20 anni. Per l’Italia questo significherebbe ulteriori tagli di 45-50 miliardi di euro all’anno per poter centrare l’obiettivo. Concordiamo con il prof. Fortis quando dice che l’Europa “si autocondanna alla distruzione” se applica il Fiscal Compact. Una serie di tagli del genere distruggerebbero il Paese. Di fronte a questa prospettiva che senso ha parlare di sforare il Patto di Stabilità di qualche decimo di punto percentuale?

La politica economica attuale ha bisogno di una profonda revisione; non basta qualche aggiustamento nella speranza di agganciare la cosiddetta ripresa. L’intera concezione monetarista e mercatista va abbandonata se si vuole cambiare direzione davvero.

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