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La scommessa di Kim

January 13, 2016

Strategia

(free) – Analisi di Paolo Balmas –

Il 6 gennaio 2016 le forze armate della Corea del Nord hanno portato a termine il quarto esperimento nucleare della propria era atomica cominciata nel 2006.

Se le informazioni che sono giunte in Europa sono vere, vuol dire che nelle ultime settimane la situazione strategica in Estremo Oriente è sostanzialmente cambiata. Non solo perché il 6 gennaio sarebbe stato portato a termine con successo un esperimento con una carica all’idrogeno miniaturizzata, ma anche per il successo del test balistico di dicembre, che dimostrerebbe la capacità di Pyongyang di lanciare un missile a lungo raggio da un sottomarino.

Sino a poche settimane fa, appunto, le intelligence della Corea del Sud e degli Stati Uniti asserivano che il Nord non fosse in grado di realizzare una testata miniaturizzata e che la tecnologia missilistica fosse ancora primitiva. Oggi, invece, si comprende che gli addetti ai lavori sono in grado di inserire una testata in un missile e di poterlo direzionare dove preferiscono per minacciare anche nemici lontani.

Un cambiamento così radicale è difficile da accettare, ma in qualsiasi caso bisogna comprendere quale sia l’atteggiamento strategico della Corea del Nord, nel caso in cui, come già suggerito, le notizie fossero vere nella loro completezza.

Prima di tutto bisogna analizzare la sequenza dei fatti. Dopo il 6 gennaio c’è stata la risposta militare degli Stati Uniti, che hanno fatto volare un bombardiere B-52 lungo il confine fra le due Coree. Di seguito, Pyongyang ha fatto trapelare la notizia che la vedrebbe intenzionata ad aprire le trattative con la Corea del Sud, gli Usa e la Cina, al fine di stipulare una pace attesa da più di sessanta anni per mettere fine al conflitto che si svolse fra il 1950 e il 1953. I due governi del Sud e del Nord, infatti, sono dal proprio punto di vista entrambi legittimi e solo una tregua li frena da così tanti anni dall’uso delle armi. Per questo motivo sono frequenti gli incidenti bellici lungo i confini terrestre e marittimo: non si fa la guerra ma si spara con una certa facilità.

Sorge quindi una domanda. I tempi sono maturi per un processo di pace?

A questo punto diviene necessario da un lato osservare le due dimensioni della narrativa nordcoreana sui test nucleari, ovvero della politica interna e della politica estera, dall’altro individuare le differenti funzioni che assume il test stesso, sia da un punto di vista mediatico che politico. Infatti, la strategia di Pyongyang, come del resto tutte le strategie politiche, si sviluppa su più fronti attraverso più funzioni.

Per quanto riguarda la politica interna, il fine della strategia di Kim, e del suo gruppo di potere, è chiaramente quello di consolidare la propria posizione in modo definitivo. Da quando è alla guida del paese si è assistito a un cambiamento di regime che ha spostato l’asse del potere dalle forze armate al partito. Ciò è dimostrato dalle esecuzioni che sono state effettuate, sempre considerando che le notizie che giungono hanno un limite minimo di accuratezza. Il prossimo maggio si terrà il summit del Partito dei Lavoratori. Per quella data, la posizione di Kim dovrà essere inattaccabile e l’immagine di un leader che affronta il mondo intero per il bene del proprio popolo è il deterrente politico essenziale dell’establishment nordcoreano. Soprattutto se si considera il bisogno di porre in secondo piano il rischio di un disastro economico che di fatto minaccia Pyongyang.

La prospettiva della politica estera è molto più articolata. In questo ambito il test assume due funzioni principali. La prima serve a richiamare l’attenzione in un momento storico in cui tutti gli occhi sono puntati sul Mediterraneo e sul Medio Oriente, in particolar modo adesso che si è inasprito il rapporto fra Arabia Saudita e Iran. La seconda, ovviamente, serve a poter formulare la richiesta di un processo di pace. Infatti, la condizione posta da Pyongyang è proprio l’inizio dei dialoghi in cambio della sospensione di ogni esperimento, sia nucleare che balistico.

Evidentemente, se è stato necessario portare l’attenzione sul proprio paese vuol dire che Pyongyang ha avvertito una minaccia incombente. Con ogni probabilità stava prendendo corpo una congiuntura pericolosa, fra crisi economica, inevitabile, e pressione esterna, da evitare (in particolar modo se dovesse assumere le fattezze di un potenziale intervento armato da parte delle potenze vicine, con il supporto statunitense).

Tuttavia, la minaccia nucleare non costituisce un deterrente sufficiente per agire nell’immediato, poiché anche il buon esito dei test non si traduce in potenza offensiva nell’arco di pochi giorni. I tempi sono più lenti di quanto i servizi giornalistici facciano credere. Chi si sente minacciato avrebbe tutto il tempo per risolvere il problema con la forza e in queste ore sicuramente c’è chi sta valutando tale opzione. Negli stessi ambienti, inoltre, non piace l’idea di dare la possibilità a Kim di assumere un ruolo diplomatico internazionale e dare il via ai negoziati. Anzi, forse Pechino più degli altri vorrebbe ottenere il merito di un tentativo di dialogo per la questione coreana assumendo il ruolo di garante (alla Cina manca quel prestigio diplomatico che hanno sempre incarnato le potenze occidentali, soprattutto nel campo degli armamenti nucleari).

Ma perché si giunge a un nodo tanto delicato e così difficile da sciogliere?

La priorità della Corea del Sud è sempre stata quella di evitare di spartire le proprie ricchezze e le proprie conoscenze con un Nord incapace di rivalutare la propria posizione politica. La transizione al sistema democratico da parte del Nord è una condizione anche per gli Stati Uniti. Questi impongono veti e sanzioni attraverso gli organi internazionali a causa dei principi sulla proliferazione, ma hanno come priorità la fine di un governo totalitarista di stampo socialista, per di più eredità di un tempo passato come quello della Guerra Fredda. La Corea del Nord dimostra che la vittoria alla fine del Novecento non è stata totale.

Per affrontare la trasformazione economica e superare la crisi che condiziona in modo permanente la propria esistenza, la Corea del Nord ha trovato un elemento capace di sostenere una posizione politica: le terre rare. Queste preziose materie prime che si trovano alla base dei processi industriali di vari settori industriali fondamentali sono state trovate in abbondanza sul territorio nordcoreano. Se Pyongyang fosse in grado di creare un mercato apposito, avrebbe la possibilità di guidare il paese verso una nuova fase di sviluppo economico senza la necessità di una transizione politica.

Chiaramente, come accennato, tale eventualità non sarebbe accettata da Washington, né da Tokyo, né da alcuni ambienti di Seoul.

Tuttavia, la prospettiva che si apre dà la possibilità di realizzarsi al desiderio della popolazione coreana in generale, che coincide con un concreto riavvicinamento della gente e delle famiglie divise da una guerra civile privata di una conclusione reale. Il Nord avrebbe la ricchezza necessaria per affrontare un cambiamento radicale dell’economia; il Sud possiede la tecnologia e la conoscenza; il mercato estero delle terre rare avrà a breve una sete straordinaria di materia prima.

In favore di una intesa si schierano decisamente la Cina, che non vuole ritrovarsi un’altra volta con una guerra combattuta sui confini; e la Russia, che vede lo sviluppo della propria rete di infrastrutture per il gas lungo la penisola coreana come un tassello essenziale dell’espansione a Est. Purtroppo, la distanza che si è creata fra la Cina e la Corea del Nord negli ultimi anni si traduce in un pericoloso isolamento per il governo di Pyongyang.

Al contrario, le riforme delle forze armate e i cambiamenti strategici militari in Corea del Sud e in Giappone lasciano pensare che ci siano già i presupposti per un confronto ben più duro di quanto lo è stato fino a oggi.

Le resistenze al dialogo sono molto forti. La diplomazia per il momento non ha la forza di soppiantare il confronto latente fra democrazia e socialismo in Estremo Oriente. Ma la cosa peggiore è che la possibilità di sfruttare la strategia del regime change, tipica di alcuni sistemi democratici attuali, attraverso le rivoluzioni colorate in Corea del Nord è veramente minima. Ciò aumenta i presupposti secondo cui la penisola coreana rischia di sfogare tutte le tensioni accumulate nella regione in un conflitto armato.

– Newsletter Transatlantico N. 2-2016

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