Elizabeth_Warren_speaks,_May_19,_2014

Sanders e Warren tentano la politica estera

December 10, 2018

Politica

(free) – di Andrew Spannaus –

Passate le elezioni di mid-term negli Stati Uniti si va velocemente verso la prima fase delle presidenziali del 2020. Mentre Donald Trump continua ad essere molto popolare presso gli elettori repubblicani, con un tasso di approvazione di circa il 90% dentro il partito, nel mondo democratico ci sono numerosi potenziali candidati che hanno già cominciato a posizionarsi come sfidanti. I risultati delle recenti elezioni indicano la strada per superare la spaccatura tra centristi e progressisti su temi economici, in quanto buona parte dei candidati si sono concentrati sulle questioni “di portafoglio”, dal miglioramento della sanità a vari altri aspetti del costo alto della vita. Tuttavia si profila uno scontro importante a livello della burocrazia di partito, tra chi è pronto ad abbracciare temi economici “populisti”, e chi vuole evitare invece di alienare quella parte del mondo corporate che sostiene ancora i democratici, ma che chiede in cambio politiche più centriste e favorevoli al settore finanziario.

Le due star dell’ala progressista del partito sono Bernie Sanders, già candidato nel 2016, e Elizabeth Warren, che ha già dato indicazione di volersi candidare. Uno dei punti più deboli di Sanders 2 anni fa era la politica estera; mentre riusciva a catalizzare grande fermento con la campagna anti-Wall Street, a parte la rivendicazione di essersi opposto alla guerra in Iraq, era evidentemente poco preparato su temi internazionali più complessi. Ora sia Sanders che Warren stanno cercando di colmare questa lacuna.

Già l’anno scorso Sanders fece un discorso pubblico in cui cercò di legare la politica estera ai temi economici. Oltre a rispolverare la famosa citazione del 1961 in cui il presidente Eisenhowever ammonì del potere eccessivo del “complesso militare-industriale”, il senatore del Vermont dichiarò che “la politica estera deve tenere in conto la disuguaglianza di reddito e di ricchezza che esiste globalmente e nel nostro paese”. Per Sanders la sicurezza internazionale passa per la lotta contro una forma “oligarchica” di governo in cui gruppi di interessi ristretti esercitano un potere spropositato sulla vita economica mondiale.

Elizabeth Warren, in un discorso dello scorso 29 novembre all’American University di Washington, D.C., ha adottato un approccio simile. Oltre a stigmatizzare i livelli esorbitanti di spese nella difesa e le guerre sbagliate in Medio Oriente, la senatrice del Massachussetts ha affermato che il “capitalismo corrotto è una minaccia fondamentale alla democrazia, qui negli Stati Uniti e nel mondo”. L’argomento principale è che la globalizzazione ha concentrato il potere nelle mani di pochi, danneggiando la democrazia e permettendo la crescita dell’autoritarismo. Ha riassunto il concetto dichiarando che se non si riuscirà a riportare il governo americano al servizio dei suoi cittadini, si permetterà a paesi che non rispettano i diritti umani a diventare dominanti.

Secondo Brian Katulis del Center for American Progress, un think tank dell’establishment democratico, la linea di Warren è più seria perché ha mostrato una vena realista quando ha parlato della necessità di contrastare l’influenza della Cina e della Russia. Intervistato dal HuffPost, Katulis ha affermato: “Warren sembra qualcuno che vuole essere veramente presidente degli Stati Uniti d’America, piuttosto che leader di un movimento politico internazionale, come Bernie Sanders…”.

E’ interessante notare che nei primi due anni dell’Amministrazione Trump i leader progressisti hanno evitato di parlare troppo spesso degli scandali – veri e presunti – del presidente. Preferiscono cercare di battere Trump sui temi di sostanza, evitando la trappola del referendum sulla personalità. Tuttavia nel cercare di posizionarsi al meglio per la stagione delle primarie, che di fatto inizieranno tra pochi mesi, entrambi hanno cominciato ad utilizzare più spesso l’arma del Russiagate contro il presidente. L’impressione è che non ci credano fino in fondo, ma che pensino di doverne parlare per rispondere alle pressioni del mondo mediatico.

– Newsletter Transatlantico N. 40-2018

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