Scenari e strategie della nuova presidenza americana

January 25, 2017

Interventi, Politica

(free) Intervento di Andrew Spannaus al convegno:
All’alba dell’era Trump:
Scenari e strategie
della nuova presidenza americana
martedì 17 gennaio 2017, Roma

Vorrei riprendere alcuni aspetti toccati dagli altri relatori, per cercare di capire il momento che stanno vivendo gli Stati Uniti, e tutto il mondo occidentale.
Intanto partirei con il tema della democrazia, presentata in modo molto interessante dal Ministro Consigliere Berg.
Guardando da un punto di vista più contingente, si vede che, piaccia o meno – e a molti non piace, per via del risultato – le elezioni americane del 2016 hanno rappresentato un momento di grande partecipazione democratica. Può sembrare contro intuitivo, perché ha votato sempre solo il 55% della popolazione, e perché il vincitore delle elezioni ha perso il voto popolare di oltre 2 milioni di voti.
Ma già dalle primarie il meccanismo degli ultimi anni è stato scardinato. In entrambi i grandi partiti ci sono stati candidati outsider che sono riusciti a prendere grandi percentuali, pur essendo osteggiati dalla struttura del partito.
Lo ha fatto Bernie Sanders con un numero record di piccoli contributi, ancora più di quelli di Barack Obama 8 anni prima.
Lo ha fatto Donald Trump invece con l’autofinanziamento, creando una situazione particolare, in cui da candidato repubblicano – e tra pochi giorni da Presidente – non ha i ‘debiti politici’ che di solito ha chi viene eletto grazie al sostegno di persone che hanno organizzato i finanziamenti per la campagna elettorale.
Trump non è immune dalle pressioni, ovviamente, ma il suo ruolo come esterno al sistema politico è un fatto significativo. Tanto di più considerando il suo approccio alla dialettica politica – a dir poco inusuale. Non è politicamente corretto, ed è spesso in conflitto con i media e le istituzioni.
Ad alcuni questa situazione fa paura, perché è più difficile influenzarlo, ma per una fetta importante della popolazione evidentemente la campagna di Trump ha suscitato un senso di riscatto; piace il fatto che lui dice le cose in modo schietto, anche se a volte in modo approssimativo.
Dopo decenni in cui si diceva che i partiti sono uguali, fanno sempre gli interessi dell’élite, adesso vediamo che l’élite sembra aver perso.
Si può essere contenti o meno di questa sconfitta, ma non si può ignorarne i motivi senza correre il rischio di peggiorare lo scollegamento già esistente tra le istituzioni e una parte della popolazione.

In termini più diretti possiamo dire che in America, come in molti paesi europei, a molte persone non importa proprio quello che viene detto dall’establishment. La stampa può attaccare un certo candidato, o difendere le politiche della globalizzazione, o raccontare come certi personaggi “importanti” favoriscono un candidato piuttosto che l’altro. Ma spesso l’effetto è il contrario da quello atteso.
Un famosa attrice negli Stati Uniti ha sintetizzato il problema in un tweet subito dopo le elezioni, dicendo che Hillary Clinton avrebbe vinto solo se avesse fatto un altro evento pubblico insieme a Beyoncé…

Il punto è che alla gente non necessariamente importa ciò che dicono le persone importanti e famose; sarebbe molto più efficace rispondere al diffuso disagio provocato da decenni di politica post-industriale.
C’è una situazione simile in Europa. Per anni si è voluto tenere fuori dal sistema per quanto possibile le formazioni euroscettiche. Ha funzionato?
Può funzionare, senza un cambiamento profondo delle politiche che hanno provocato il disagio della popolazione? Oppure basta dire che sono brutti cattivi razzisti, e tutto si sistemerà?
In Europa sono anni che si parla di maggiore flessibilità, di una politica per la crescita, ma quanto è stato fatto? Il Piano Juncker? Le trattative sullo 0,1 o 0,2 % del Pil?

Il problema più fondamentale a mio avviso è che i valori vengono utilizzati per giustificare certe politiche, che non necessariamente rispecchiano veramente quei valori.
Prendiamo uno degli esempi più noti: Francis Fukuyama e il suo concetto di Fine della Storia. La sua concezione è che la democrazia liberale e il modello del libero mercato hanno vinto nella guerra tra le ideologie, e rappresentano il culmine dell’evoluzione umana.
Dunque libertà = libero mercato. E’ sempre così?
Oppure forse la finanza speculativa ha utilizzato questo concetto di libertà per promuovere un sistema in cui certi attori sono liberi di agire per il proprio interesse, anche a danno della collettività?
Il valore della democrazia. Ha funzionato l’esportazione della democrazia in Medio Oriente?
Quanti hanno utilizzato il sostegno per gruppi pro-democratici per scopi geopolitici?
Dunque la visione di un sistema di valori condivisi a livello internazionale, nel contesto della globalizzazione dell’economia e dei diritti, viene messa pesantemente in discussione in questo momento.
Devo dire che fino a poco tempo fa dire queste cose era problematico. Lo facevo lo stesso, ma venivo bollato come “comunista” da alcuni, “anti-occidentale” da altri. La situazione è cambiata però, perché la rivolta degli elettori negli Stati Uniti e in Europa ci permette di discutere i temi meno superficiali – non che i media o i politici abbiano subito abbracciato questa possibilità, ma ad un certo punto è d’obbligo affrontare i problemi di lunga data che hanno portato alla situazione attuale.
Credo che in questo momento ci sia l’occasione di rendersi conto di certi errori, e di ristabilire chiarezza sui nostri valori fondamentali.

Quindi dove sta andando il mondo?
Intanto esistono ancora i confini, in termini geografici ed economici. Lo stato nazionale avrà ancora un ruolo – nell’ottica di un ritorno alla politica.
Sono tutte battaglie aperte, ovviamente, ma pensare di mantenere il sistema in cui lo stato debba avere il minor ruolo possibile in economia a questo punto diventa molto difficile.
Donald Trump ha reso chiara la sua intenzione di battersi per il lavoro negli Stati Uniti. Lo fa tutti i giorni su Twitter, e sarà al centro della sua politica estera, in modo particolare con la Cina.
Andiamo verso un ritorno all’economia reale.
Non sarà facile però, perché il Presidente-eletto dovrà combattere con la propria maggioranza al Congresso, che ha una visione molto più liberista.
Due esempi in cui i contrasti stanno già uscendo sono le infrastrutture e la sanità.
Per quanto riguarda il primo tema alcuni consiglieri di Trump hanno parlato di investimenti pubblici significativi, ma nel mondo repubblicano si preferisce un meccanismo che mobilita i capitali privati, con esiti meno sicuri.
Nel campo della sanità i repubblicani non vedono l’ora di eliminare l’Obamacare. Tuttavia Donald Trump ha appena promesso di dare a tutti la copertura sanitaria; sono due approcci chiaramente incompatibili.

Ancora più difficile sarà il campo della politica estera.
Trump ha fatto campagna contro la politica di “cambiamento di regime”. Ha promesso di smettere di fare guerre inutili in giro per il mondo, e di utilizzare le risorse risparmiate per ricostruire l’economia americana. Ha vinto su questo.
Il punto più grande, ovviamente, è stata la Russia.
Nonostante tutte le pressioni, di alleati e oppositori, Trump ha mantenuto una linea che incontra l’opposizione di quasi tutto l’establishment americano in questo momento.

Si tende a non ricordare, ma la linea di apertura alla Russia non l’ha inventata Trump.
Negli incontri dell’Associazione Roma 3000 ne ho parlato spesso negli ultimi anni:
l’Amministrazione Obama stava cercando – timidamente – di andare nella stessa direzione.
Si iniziò con l’accordo sulla rimozione delle armi chimiche dalla Siria nel 2013, invece dei bombardamenti. Poi il Presidente si spese molto nel 2013-2014 per raggiungere l’accordo con l’Iran, con l’aiuto della Russia e anche delle altre grandi potenze. Questa traiettoria fu interrotta dalla situazione ucraina, ma anche in questo caso Obama ha resistito alle pressioni di andare allo scontro aperto. Aveva detto per esempio ai generali della Nato – come Philip Breedlove – di “non trascinarmi in una nuova guerra”. E in Siria ha respinto le richieste continue di un sostegno più diretto ai ribelli.
L’anno scorso invece, sempre in Siria, siamo andati vicinissimi ad un joint implementation center, cioè la condivisione di intelligence e raid aerei congiunti tra Russia e Stati Uniti contro al-Nusra.
Per questo ho spesso detto che Trump era più vicino ad Obama in politica estera di Hillary Clinton.

Il tentativo di maggiore collaborazione con la Russia è fallito, a partire dal bombardamento delle truppe siriane e poi del convoglio umanitario, a metà settembre dell’anno scorso.
In quel periodo, tra i vari elementi delle istituzioni americane, c’è stata una convergenza verso una posizione più dura nei confronti della Russia.
Se prima il mondo dell’intelligence e della diplomazia andavano già in questa direzione, abbiamo visto un cambiamento nei vertici militari, che invece negli anni precedenti erano stati più cauti.
Si aspettava la vittoria di Hillary Clinton, che aveva una posizione in linea con questo nuovo orientamento prevalente.
Ma non ha vinto lei; una sorpresa con implicazioni forti per il mondo della sicurezza nazionale.

Sei mesi fa l’approccio nel mondo della sicurezza nazionale era di dare spazio ai tentativi di Obama a Kerry di raggiungere un accordo con la Russia, e poi successivamente di affrontare la questione Ucraina. Oggi sembra una memoria lontana, dimenticata anche da Obama, che nelle ultime settimane si è concentrato sulla risposta alle presunte interferenze russe nella campagna elettorale.

Così arriviamo alla situazione attuale, una situazione quasi senza precedenti di scontro tra le agenzie di intelligence e il Presidente-eletto.
Sono questioni delicate, che normalmente non sono sotto gli occhi del grande pubblico.
Ma dopo la pubblicazione dell’ultimo dossier sui presunti elementi di ricatto di cui disporrebbe la Russia nei suoi confronti, Trump ha accusato apertamente le agenzie di intelligence di volerlo delegittimare.
Diventa evidente che la vera questione è la direzione della politica estera americana.
Trump è stato essenzialmente irremovibile sulla volontà di collaborare con la Russia, anche se negli ultimi giorni si è visto qualche piccolo passo indietro da parte sua, sulla questione degli hacker, e da parte di Rex Tillerson e James Mattis, che al Senato si sono trovati a discutere della Russia come minaccia, nei termini richiesti dai Senatori.

Quindi la prima grande questione che si pone a mio avviso, è se Trump sarà progressivamente “domato” sulla questione Russia, oppure se avrà la capacità di imporre la sua visione alle istituzioni americane.

Prese insieme, le due grandi aree utilizzate da Trump in campagna elettorale, e che sono e saranno terreno di scontro a Washington e anche in Europa, possono rappresentare un vero cambio di paradigma nei prossimi anni.
La fine della globalizzazione – non perché si fermerà il movimento di persone e di beni nel mondo-, il commercio internazionale continuerà, anche senza i nuovi trattati commerciali,qualora tramontassero definitivamente, ma la fine del modo in cui la globalizzazione ha definito i valori di libertà e democrazia negli ultimi anni, cioè di crescente liberismo e di esportazione della democrazia.
Al loro posto potremmo vedere un ritorno all’economia reale, guidato dal ruolo pubblico, o direttamente con investimenti o con misure per proteggere la produzione nazionale.
Questo avrebbe importanti implicazioni per la politica estera, fornendo una base forse più solida ai tentativi di limitare la riduzione del ruolo occidentale rispetto a nuove potenze e nuove istituzioni, del mondo asiatico in modo particolare.

Non so dire quanto tempo ci vorrà per vedere effettivamente questo cambiamento, se Trump, o altri nel mondo occidentale, lo inizieranno effettivamente a breve. Ma sono questi i temi che sono stati sollevati in modo prepotente negli Stati Uniti, e che si presentano anche in Europa in un anno in cui quasi tutti i più grandi paesi del continente andranno al voto. Non affrontarli, non è un’opzione.

All’alba dell’era Trump: scenari e strategie della nuova presidenza americana
martedì 17 gennaio 2017,
ore 17.00, Sala di Santa Maria in Aquiro (Senato della Repubblica),
Piazza Capranica 72, Roma

Introduce:
Alessandro Forlani, Presidente Consulta studi geostrategici Roma 3000

Relatori:

Paul Berg, Ministro-Consigliere per gli Affari Politici presso l’Ambasciata Usa a Roma
Giampiero Massolo, Ambasciatore di ruolo, Presidente Istituto Studi Politici Internazionali
Andrew Spannaus, Analista politico internazionale, autore del volume “Perché vince Trump”
Mario Sechi, Giornalista e esperto di politica internazionale

– Newsletter Transatlantico N. 4-2017

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