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Realignment o guerra perpetua: la strategia degli USA verso l’ISIS

November 26, 2014

Interventi, Strategia

(free) – Relazione di Andrew Spannaus per il convegno:

La responsabilità delle nazioni nella difesa della civiltà contro la sfida dell’ISIS

25 novembre 2014 – Sala delle Colonne, Camera dei Deputati.

(l’elenco completo degli interventi è in fondo al testo)

Riassunto: Con la guerra all’ISIS gli Stati Uniti si trovano di fronte ad un bivio: continuare con la politica del cambiamento di regime dell’ultimo decennio, o collaborare con certi ex-nemici per affrontare la minaccia del terrorismo più radicale. L’Amministrazione Obama subisce pressioni interne ed esterne dai neocon e dagli interventisti di sinistra, ma per ora rassicura che la guerra è contro lo Stato Islamico, non contro Assad. Un riallineamento delle alleanze in Medio Oriente sarebbe un passo importante anche per ristabilire un clima di cooperazione con la Russia e con i paesi emergenti concentrati sugli investimenti e sulla crescita.

Io parlerò del realignment, cioè della possibilità di un cambiamento radicale nei rapporti occidentali con certi attori nel Medio Oriente, come la Siria e l’Iran.

Negli ultimi anni queste nazioni sono state tra quelle derubricate come i nostri nemici, sponsor di terrorismo, intente a distruggere i nostri alleati e a contrastare l’influenza americana in modo particolare.

Da quando l’America, dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, ha cominciato a perseguire apertamente la politica del regime change – il cambiamento di regime – siamo arrivati molto vicini alla guerra aperta con loro. C’è chi vorrebbe intervenire militarmente in Iran, in linea con l’atteggiamento aggressivo del Primo ministro israeliano Netanyahu.

E per quanto riguarda la Siria il presidente Obama ha quasi dato l’ordine di bombardare le forze di Assad un anno fa, intervento sventato all’ultimo minuto dall’accordo sulle armi chimiche con l’intermediazione del presidente russo Vladimir Putin.

Oggi però, con l’emergere dell’ISIS, l’America – e l’Occidente tutta, direi – si trova davanti ad un bivio: si potrà affrontare questo problema in linea con la strategia degli ultimi anni, cioè di interventi militari per trasformare il Medio Oriente a nostro gradimento, scegliendo degli alleati tra l’ampio spettro di gruppi radicali e i loro sostenitori; oppure si potrà porre fine a questa strategia di cambiamento di regime e cominciare a collaborare con alcuni ex nemici per affrontare le minacce più immediate.

Parliamo della strategia americana per la cosiddetta guerra all’ISIS. Io dico “cosiddetta” perché è evidente che in realtà non si sta facendo una guerra vera e propria.

Obama è andato in televisione ad annunciare che faremo il necessario per “indebolire e distruggere lo Stato Islamico”. E da qualche mese stiamo conducendo degli attacchi aerei contro l’ISIS e in difesa di alcune popolazioni nel mirino di tale gruppo.

Eppure si ha la sensazione che stiamo facendo poco, cioè che i grandi proclami sull’ampia coalizione per distruggere l’ISIS siano più annunci che altro. Se per esempio guardiamo i numeri degli attacchi aerei, vediamo che sono ben più bassi di altre campagne militari. Nei primi 50 giorni sono stati condotti circa 250 attacchi aerei, circa 5 al giorno; poi sono aumentati a circa 7 al giorno quando sono iniziati in bombardamenti anche la Siria.

Durante la prima guerra in Iraq la cifra era di 1100 al giorno, nel 2003 era di 800. In situazioni forse più simili a quella di oggi, come in Serbia o in Afghanistan, la media oscillava intorno a 100 al giorno.

Succede perfino che gli aerei partono e tornano senza aver bombardato un bel nulla. E’ il caso dei caccia degli Emirati Arabi e talvolta anche del Regno Unito.

Sembra che ci siano pochi bersagli, e che spesso siano difficili da individuare. E si vogliono evitare troppi danni collaterali. E’ difficile bombardare un gruppo come l’ISIS, qualcuno dice, non ha certamente le infrastrutture istituzionali o militari dell’Iraq di Saddam Hussein, per esempio.

E questo ci porta al secondo punto, quello dell’intervento di terra. Come sanno tutti, le promesse di Obama hanno sempre avuto un grande asterisco: no boots on the ground. Cioè che non si manderanno truppe di terra per combattere questa guerra.

Ora, lasciamo da parte per il momento il fatto che gli Usa stanno mandando qualche migliaio di consiglieri militari, che dovrebbero addestrare ed aiutare gli alleati. Il dato politico è che Obama non ha intenzione di mandare soldati americani a condurre direttamente una nuova guerra; il popolo americano assolutamente non la vuole.

E dunque abbiamo questa situazione di una guerra che nonostante le dichiarazioni pubbliche procede molto lentamente nei fatti. E di un presidente che annuncia un limite forse decisivo alla propria strategia, dando un grande vantaggio al nemico. Obama dice che non importa cosa succederà, noi non verremo lì con le nostre truppe a farvi la guerra.

Non deve sorprendere infatti che i militari americani sono molto frustrati da questa situazione. Dal Pentagono trapelano numerose voci su come le forze armate si sentono le mani legate, non sono convinti che Obama sia deciso a combattere questa guerra.

La frustrazione viene colta chiaramente nelle parole del generale Martin Dempsey, capo degli stati maggiori riuniti, che nelle audizioni pubbliche al Congresso lascia sempre aperta la porta alla possibilità di cambiare le sue raccomandazioni al presidente, e di valutare la necessità delle truppe di terra.

Fu proprio Dempsey, con il sostegno del Segretario alla Difesa Hagel, a spingere Obama ad agire in difesa dei curdi già in agosto, facendogli capire l’urgenza della situazione.

Ma Dempsey dice un’altra cosa molto chiaramente: che la missione non è di rovesciare il regime di Assad; cioè non si intende sfruttare l’occasione della guerra contro l’ISIS in Iraq e in Siria per far cadere finalmente il regime siriano.

Questa posizione, naturalmente decisa in ultima analisi dal presidente, è comunque in linea con la posizione di Dempsey e di molti altri militari recentemente, di opporsi a nuove avventure militari nel segno del cambiamento di regime.

Ci sono diverse voci autorevoli che ammoniscono contro il lancio di una nuova guerra contro Assad, di personaggi istituzionali che si preoccupano che Obama cederà alle pressioni come ha fatto in altri casi, come quello della Libia.

Ma per ora, come ha detto il generale Dempsey, la missione definita dal presidente si limita all’ISIS e non mira ad Assad.

E’ una linea che sta facendo imbestialire alcune fazioni dentro la stessa Amministrazione, insieme a buona parte dell’establishment politico degli Stati Uniti, che agisce con il fervente sostegno dei media principali.

Il partito pro-guerra, ossia a favore della continuazione della strategia del cambiamento del regime come attuata in Iraq e in Libia, consiste grosso modo di due gruppi: da una parte i neoconservatori – i famosi neocon – che sono ancora ben presenti nelle istituzioni politiche e nella stampa.

Dall’altra, da parte democratica, ci sono gli interventisti liberal (progressisti), guidati dentro il governo stesso dal Consigliere per la Sicurezza Nazionale Susan Rice, e dall’Ambasciatrice all’ONU Samantha Power.

Queste propongono la dottrina esplicitata da Tony Blair – uno dei principali artefici della guerra in Iraq – della Responsabilità di Proteggere (Right to Protect). Si chiede di intervenire militarmente laddove occorre salvaguardare i diritti umani; nella sostanza è la stessa politica dei neocon, giustificata in modo leggermente diverso.

Tra l’altro c’è una novità importante, proprio di ieri. E’ stato costretto a dimettersi Chuck Hagel, cedendo alle pressioni di Rice. Un collaboratore di Hagel ha parlato apertamente dei contrasti con gli interventisti progressisti, che sembra siano riusciti a far rimuovere un ostacolo ai loro piani. In questo modo Obama e la sua Amministrazione sembrano avvicinarsi di più alla posizione interventista.

Dunque la Casa Bianca si trova sotto pressione da più lati: dai militari perché è stata affidata loro una missione ma non gli strumenti per attuarla. Dal Congresso, dai thinktank e dai media perché vogliono che Obama intervenga direttamente in Siria per “completare la missione” di far fuori Assad.

Allora molti accusano Obama di essere indeciso, debole, incompetente o reticente ad affrontare questa grande sfida. Ma la mia conclusione è diversa: che finora la guerra Obama la sta combattendo in gran parte in termini politici. Tutti i grandi annunci vengono fatti perché il presidente si sente obbligato a farli, deve farsi vedere forte e deciso, non può permettersi di non dire certe cose, perché esiste una sorta di pensiero unico che vige a Washington in merito alle vicende mediorientali.

Ma dietro le quinte Obama sa che se dovesse seguire questo pensiero unico fino in fondo, sarebbe un disastro.

Per vari motivi però, questo non significa che Obama è disposto a cambiare nettamente direzione; piuttosto segue questo sentiero a malavoglia, e seppur timidamente, cerca delle vie d’uscita.

Esaminiamo brevemente il group think che domina il discorso a Washington oggi.

La linea prevalente dice che la guerra in Iraq era stata praticamente vinta con il surge – l’aumento delle truppe a partire dal 2006 – e che la decisione di Obama di lasciare il paese ha permesso all’ISIS di crescere.

In merito alla Siria si dice che Obama ha sbagliato a non intervenire direttamente, e soprattutto a non aiutare a sufficienza i ribelli moderati.

Sul primo punto, quello dell’Iraq, rasentiamo l’assurdo. Piuttosto che ammettere che il caos dell’Iraq è il risultato dell’invasione del 2003, la de-baatificazione e le conseguenti divisioni settarie, si cerca di giustificare una pesante presenza militare che alla fine non voleva più nessuno. La riduzione temporanea della violenza non ha risolto i problemi di fondo.

Sul secondo punto, la Siria, non va molto meglio.

Da tempo la valutazione dell’intelligence è che ci sono ben pochi ribelli moderati pronti a fare la guerra ad Assad. Abbiamo già avuto l’esperienza di sostenere tanti gruppi che in realtà erano alleati con Al Qaeda e che si sono rivelati i nostri nemici. E quelli considerati moderati pare che abbiano pure venduto degli ostaggi all’ISIS.

Pochi mesi fa Obama stesso ha dichiarato che l’idea di creare una forza efficace tra i ribelli moderati era semplicemente una “fantasia”.

Il modo più facile di capire la natura strumentale di queste critiche però è di chiedersi cosa succederebbe se oggi non ci fosse il governo di Assad. Mettiamo caso che i ribelli, con il sostegno occidentale, fossero al comando nel paese. I gruppi più forti sono quelli radicali. Non è probabile che sarebbero alleati dell’ISIS oggi, volenti o nolenti?

Avrebbero avuto la forza di contrastare l’avanzata?

Lo scenario più verosimile è che la bandiera nera sventolerebbe su Damasco, e che l’unica via percorribile ora sarebbe una massiccia invasione di terra da parte delle nazioni occidentali. Magari a qualcuno piace questa idea, ma a mio avviso la soluzione non è di occupare militarmente tutto il Medio Oriente.

Ora però l’atteggiamento verso i moderati sembra cambiato. Gli Usa hanno annunciato soldi e addestratori per preparare migliaia di combattenti contro l’ISIS. Questo sarebbe il punto centrale della nuova strategia.

Dunque che cosa è cambiato da giugno di quest’anno quando Obama aveva definito una fantasia questo progetto?

I cambiamenti sono in un certo senso ovvi: l’ISIS ha guadagnato territorio, ha un’organizzazione economica e militare e riesce a reclutare nuovi membri.

E soprattutto mandano in onda dei video, video brutali dell’uccisione di cittadini americani e britannici. Sono orrendi, e i leader politici non possono non rispondere.

Qui sta il dilemma. Di fronte a questa minaccia bisogna per forza fare qualcosa. Ma se gli Stati Uniti guidano la guerra all’ISIS, si rende la propaganda dell’ISIS ancora più efficace.

Sanno bene che non ci conviene venire a fare la guerra davvero – via terra, occupando il territorio, che comunque a lungo termine nemmeno funziona – ma offriamo la perfetta immagine del grande nemico. Vogliono che l’America sia la faccia del nemico, serve per coalizzare le forze radicali dietro di loro.

La strategia militare attuale non è assolutamente sufficiente. Non si può compiere la missione come vogliono i militari, perché si cadrebbe nella solita trappola, facendo aumentare il sostegno per l’ISIS.

Ma non si può nemmeno cedere alle pressioni di chi chiede la testa di Assad, per non peggiorare la situazione sul campo.

E così arriviamo al punto più interessante.

Non è che Assad sia diventato ora il nostro amico, ma ci si è resi conto che forse c’è qualcosa di peggio di lui. C’è qualcosa di peggio dell’Iran. C’è qualcosa di peggio della cooperazione con loro e anche con la Russia.

Se si lavora per far fuori i governi che più sono in grado e interessati ad opporsi all’ISIS, si rischia di peggiorare ancora la situazione, oltre il gestibile.

E’ un gioco che noi in Occidente abbiamo perseguito per decenni. Tutti questi terroristi radicali sunniti nascono dal sostegno nostro e dei nostri grandi alleati: i sauditi.

Abbiamo sostenuto i mujaheddin a partire dalla fine degli anni Settanta, e n’è uscito Bin Laden e Al-Qaeda. L’Arabia Saudita e il Qatar hanno finanziato i gruppi più estremi in Libia e in Siria, e ora li troviamo coalizzati contro di noi.

Perché l’abbiamo fatto? Perché conveniva per dar fastidio ai nostri nemici: all’Unione Sovietica prima, a Gheddafi, all’Iran, ad Assad.

Non li abbiamo creati in laboratorio, ma abbiamo costruito l’edificio e finanziato le loro operazioni, insieme ai nostri cosiddetti amici.

Dunque oggi cosa succede?

A settembre la coalizione ha cominciato a bombardare la Siria; ma non l’esercito siriano.

Dopo anni di minacce da parte degli Stati Uniti, di resistenza da parte di Assad, e di controminacce da parte di Putin… praticamente nessuno ha detto niente.

La Russia non si è lamentata, e nemmeno la Siria si è lamentata che abbiamo bombardato il loro territorio! Anzi, il ministro degli esteri siriano ha detto “Va bene” – “it’s OK!” Perché sa che gli attacchi non saranno rivolti contro il suo governo.

E’ molto strano, visto che a Washington sembra che tutti vogliano far fuori Assad. Obama continua a dire che Assad se ne dovrà andare; ma ora parla di futura soluzione politica, non di intervento militare.

La realtà nella regione è cambiata diametralmente negli ultimi mesi. Il Ministro degli Esteri siriano Walid Muallem conferma che gli americani hanno comunicato che gli attacchi saranno rivolti esclusivamente contro l’ISIS. Gli Usa hanno mandato rassicurazioni simili all’Iran, aprendo alla possibilità di collaborare sulla sicurezza nella regione.

Arrivo così verso la conclusione. Per il momento l’Amministrazione Obama cerca di tenersi a galla con azioni militari limitate per fermare o almeno contenere l’avanzata dell’ISIS.

Ma l’Amministrazione sembra cosciente del fatto che non c’è una soluzione militare che preveda il ruolo predominante degli Stati Uniti. Ci vuole un’alleanza – se non formale almeno di fatto – con i governi sciiti della regione, che sono naturalmente interessati a contrastare lo Stato Islamico.

Ma questo cambiamento non è per nulla facile.

Sia Obama che Kerry hanno parlato della necessità di una soluzione negoziata in Siria, che comprenda la Russia e l’Iran – tutto il contrario di ciò che vogliono gli interventisti progressisti e i neocon che sono la maggioranza a Washington.

Anzi, dopo le elezioni di medio termine quest’ultimi sono ancora più forti, in quanto ora i repubblicani controllano anche il Senato.

Significa che si rischia anche l’affossamento dell’accordo con l’Iran, punto chiave in questo mosaico di realignment, di riallineamento delle alleanze.

La riapertura dei rapporti con l’Iran rappresenterebbe un passo enorme verso il cambiamento, rimuovendo lo spettro di una nuova guerra a breve – se falliscono le trattative lo scontro diventa altamente probabile nei prossimi anni – e ridimensionando il rapporto occidentale con i sauditi, che hanno svolto un ruolo così grande nel finanziare il terrorismo.

Ieri è stato annunciato un’altra proroga dei negoziati. Sono stati fatti tanti progressi, ma ci vuole ancora tempo per fare l’ultimo passo politico e per definire gli aspetti tecnici, tempo in cui gli oppositori della distensione si daranno da fare, da entrambe le parti. Più si rimanda, meno diventa probabile che si troverà un accordo.

Last but not least, ci sono i rapporti con la Russia. Dopo l’accordo sulle armi chimiche sembravano aprirsi delle prospettive positive, ma pochi mesi dopo è esploso uno dei progetti nel cassetto dei neocon, portato avanti da anni a suon di miliardi di dollari: la rivolta in Ucraina.

Quella che è iniziata come una protesta pacifica è stata trasformata in una presa di potere violenta e anticostituzionale, e ha portato velocemente all’acuirsi delle tensioni tra la Nato e la Russia, riportandoci indietro di molti anni.

La situazione è ancora tesa e pericolosa, ma un piccolo raggio di speranza su questo fronte viene di nuovo dai negoziati sulla Siria: sembra che sia stato Putin a fare da intermediario con Assad per permettere i bombardamenti americani dell’ISIS in Siria.

La questione dei rapporti tra i grandi blocchi va oltre gli equilibri con la Russia. Si sta formando un’alleanza di paesi che fanno accordi per la cooperazione e per lo sviluppo economico, guidata dai paesi Brics, che rappresentano oltre il 40% della popolazione mondiale. E’ un fenomeno che avviene al di fuori del controllo degli organismi e della finanza occidentali, più intenti a salvare le banche che a rilanciare l’economia reale.

Qualcuno vede questo processo come una minaccia. L’alternativa è di lavorare insieme nella prospettiva del vantaggio reciproco.

Un cambiamento di questo tipo è probabile? Diciamo che è possibile, ma la situazione di oggi è molto fragile. E non si possono nemmeno ignorare i rischi e le difficoltà di collaborare con questi paesi.

Tuttavia a mio avviso questo realignment è sicuramente auspicabile; perchè l’alternativa è la guerra continua, con uno scontro che potrebbe andare ben oltre il Medio Oriente.

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Centro Studi Roma 3000 

Invita al convegno

La  responsabilità delle nazioni nella difesa della civiltà contro la sfida dell’ISIS

Apre i lavori

Alessandro Conte, Presidente Roma 3000

Introduce

Alessandro Forlani, Presidente Commissione Studi Geopolitici Roma 3000

Intervengono

Gianluca Ansalone, docente di Geopolitica presso SIOI

La minaccia dell’ISIS e il futuro del Medio Oriente

Dario Rivolta, analista politica internazionale già vicepresidente Commissione Esteri Camera dei Deputati

Il coinvolgimento dei curdi nel conflitto contro l’ISIS

Andrew Spannaus, analista internazionale, Transatlantico.info

La strategia USA a fronte della nuova offensiva islamica

Andrea Manciulli, Presidente Delegazione Italiana presso Assemblea

Parlamentare NATO

La NATO e l’Europa nel nuovo scenario mediorientale

Carlo Panella, editorialista Il Foglio

Civiltà contro barbarie

Gian Micalessin, reporter de Il Giornale

L’occhio testimone del conflitto dal fronte 

Dirige il dibattito: Paolo Messa, giornalista, Direttore Air Press

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