La Sharing economy e la sicurezza economica

September 10, 2014

Cultura, Economia, Migliori

Riassunto: La ricerca dell’efficienza attraverso l’Internet delle Cose, in cui sono collegati sempre più aspetti della società umana, pone delle sfide per il ruolo dei governi e per la sicurezza dei cittadini, sia in termini fisici, per esempio l’affidabilità delle infrastrutture, sia in termini sociali, in merito all’utilizzo dell’efficienza per spostare i rischi e i costi sui più deboli.

Viviamo in un mondo sempre più collegato, con l’emergere di reti di comunicazione regionali e globali che cambiano il modo di vivere e di commerciare, e presentano nuove sfide per i governi che devono definire le regole entro cui avvengono questi processi. Dalla fine degli anni Novanta abbiamo visto l’emergere di Internet, una rete di informazioni a cui tutti possono accedere; da qualche anno si sta formando una rete ancora più ampia, la cosiddetta Internet delle Cose (“Internet of Things”) in cui sono collegati non solo i dispositivi elettronici come computer, cellulari e tablet, ma anche le infrastrutture, i fattori produttivi ed ambientali, e le meta-informazioni che tracciano il comportamento delle persone.
I vantaggi di questa evoluzione sono evidenti. Si prenda ad esempio la rete elettrica. Se ogni utente – pubblico, commerciale e privato – è collegato ad una rete in grado non solo di fornire energia ma anche di ricevere informazioni su come gli utenti stessi consumano, diventa possibile realizzare un sistema di produzione molto più efficiente. Si crea una rete intelligente in cui si cerca di eliminare le inefficienze e far combaciare il più possibile l’offerta con la domanda.
Questo stesso modello si applica in molti altri campi, in alcuni casi per rendere la vita quotidiana più facile, e in altri per affrontare problemi che altrimenti avrebbero dimensioni difficili da gestire.
Un esempio molto semplice è quello del traffico. I sistemi di navigazione odierni sono in grado non solo di dirci la strada più breve per arrivare a destinazione; ci possono dire anche quando cambiare percorso a causa di lavori stradali o anche problemi di traffico dovuti ad incidenti od altro. Questi sistemi sono tanto più efficienti quanto ricevono informazioni in tempo reale, un processo chiaramente agevolato dalla partecipazione degli stessi automobilisti. Dunque quando avviene un incidente o un altro problema, prima il sistema può essere riprogrammato prima si eviterà l’acuirsi del problema e i disagi per chi è in viaggio.
Naturalmente si tratta di una risposta molto parziale alle vicissitudini del mondo quotidiano. Avere più informazioni non significa risolvere i problemi, semmai ci aiuta solo ad aggirarli in parte. Se le strade sono in pessimo stato il sistema di navigazione può dirci quale percorso è migliore, ma rimane il fatto che serve fare la manutenzione. Se avviene un incidente su un’arteria principale non basta mandare tutto il traffico sulle strade locali, creando degli ingorghi senza fine; serve sempre un intervento rapido per ripristinare la situazione. Dunque il miglioramento dell’efficienza è una soluzione importante ma solo parziale; guai a pensare che possa sostituire gli investimenti necessari per garantire l’affidabilità dell’infrastruttura stessa.
Un altro esempio di questo problema si è visto proprio in Italia nel 2003, quando l’intero paese (ad eccezione della Sardegna) ha vissuto un lungo blackout a causa di un albero caduto in Svizzera. L’Italia – si sa – ha un deficit di energia elettrica. E per motivi di efficienza e risparmio da anni una bella quantità di quell’energia proviene dall’estero, passando dalla Svizzera, piuttosto che da nuovi investimenti a livello nazionale. La caduta di un albero sulla linea di alta tensione oltre confine ha innescato una serie di eventi che hanno lasciato decine di milioni di persone al buio per quasi un’intera giornata. In quel caso l’efficienza e il risparmio prodotti dall’importare l’energia dall’estero hanno contribuito al fallimento del sistema. Mancava la redundancy, cioè la capacità di riserva necessaria per garantire il sistema in una situazione di crisi.
Per dirla con un esempio ancora più evidente, è fondamentale che gli ospedali (e tante altre strutture) abbiano i generatori di riserva, altrimenti si metterebbe a rischio la vita delle persone in caso di malfunzionamento della rete elettrica. Un sistema di generatori per una struttura grande rappresenta un investimento significativo, ma sarebbe criminale cercare di risparmiare perché si vuole evitare un investimento “inefficiente” che verrà utilizzato poco o mai.

Un ulteriore passo delle reti intelligenti è quello del cosiddetto crowdsourcing, cioè l’utilizzo di input dal pubblico che permettono di conoscere una certa situazione in assenza di dati dettagliati da altre fonti. Un esempio notevole di questo metodo è quello attuato dallo stato del Texas negli Usa nel 2006 per cercare di migliorare la sicurezza del confine con il Messico. Le autorità pubbliche hanno chiesto ai cittadini di monitorare loro stessi i video del confine e di segnalare l’attraversamento di immigrati clandestini e il contrabbando. L’effetto è stato che il Texas ha raggiunto un livello di monitoraggio molto alto con un investimento molto basso. Il settore pubblico, non in grado di fare gli investimenti necessari per raggiungere i suoi obiettivi (seppur forse discutibili in questo caso) ha sfruttato le nuove reti per aumentare le proprie potenzialità.
E’ facile immaginare i problemi che possono esserci (e che in effetti ci sono stati) con una soluzione come quella del Texas: dalla difficoltà di gestire una massiccia quantità di informazioni e di distinguere tra quelle importanti e quelle inutili, alla sostenibilità del sistema a lungo termine, a questioni di regolamentazione e privacy per i cittadini oggetto di un monitoraggio troppo zelante.

Il problema più pressante però è quello dell’utilizzo degli strumenti di condivisione – la sharing economy – come arma economica; cioè il tentativo di coinvolgere gli utenti in modo da spostare i costi e i rischi delle attività economiche su di loro, riducendo le responsabilità delle società, e indirettamente anche dei governi.
Come esempio di questo fenomeno prendiamo i servizi forniti da società come Uber e Lyft, i nuovi sistemi molto popolari per la mobilità efficiente ed economica che stanno sfidando il servizio taxi nei paesi occidentali.
E’ indubbio che questi servizi abbiano trovato un modo efficiente per fornire il servizio del passaggio a pagamento: la gente usa lo smartphone per prenotare un servizio personalizzato, sa il prezzo in anticipo, e paga in modo elettronico. La questione è se questa efficienza rappresenta un valore aggiunto, oppure semplicemente uno spostamento dei costi da una parte all’altra. E’ scontato riconoscere il merito dell’invenzione dell’app per il cellulare; ciò che crea più preoccupazione invece è il business model di queste società, basato sulla riduzione dei costi per l’impresa. I lavoratori di Uber e Lyft – e ci sono molti altri esempi di reti di servizi che spuntano in questi anni – non sono dipendenti delle relative società. Sono lavoratori precari che prendono quei lavori che riescono a trovare, senza garanzie. Questo può rappresentare un problema anche per gli utenti, in termini di sicurezza e affidabilità dell’autista.
Il New York Times ha scritto una serie di articoli su questi nuovi servizi nel mese di luglio, in cui spiega:
“Questi mercati stanno aumentando la loro presa per i lavoratori – dicono gli economisti del lavoro – perché molte persone non sono in grado di trovare un lavoro stabile e si sentono costrette ad accettare dei compiti ad hoc. A luglio c’erano 9.7 milioni di americani disoccupati, e altri 7.5 milioni che lavorano part-time perché non riescono a trovare un lavoro a tempo pieno…
Uber, Lyft and TaskRabbit, per esempio, non considerano come dipendenti i lavoratori che forniscono servizi ai propri utenti. Le società si dichiarano essere semplicemente dei luoghi di incontro, come una sorta di eBay per dei lavoretti. Richiedono che i fornitori di servizi lavorino come autonomi, e come tale, non acquisiscono i requisiti necessari per i benefits come l’assicurazione sanitaria, le detrazioni per i contributi previdenziali, o i sussidi di disoccupazione”.
Dunque in questo caso non si tratta più di una rete di condivisione tra privati cittadini; ci troviamo di fronte allo sfruttamento della sharing economy per motivi di profitto, permettendo alla società e ai suoi investitori di evitare i “costi” dello stato sociale. In buona sostanza la disponibilità di lavoro diffusa e immediata permette di aggirare gli obblighi fissati dalla legge: nei fatti le società sono dei datori di lavoro, ma riescono ad evitare i costi dell’assunzione dei lavoratori. Di conseguenza non sorprende scoprire che queste società devono il loro successo agli investimenti dei grandi della finanza – tra i finanziatori di Uber troviamo la Goldman Sachs e il fondo Blackrock, per esempio – che sono notoriamente esperti nell’estrarre i profitti finanziari dall’economia reale.

Il caso di Uber è molto discusso in questi mesi anche in Europa. A sorpresa il tribunale di Francoforte ha bloccato le operazioni di Uber in tutta la Germania il 2 settembre, citando rischi per la sicurezza e la mancanza di vigilanza. Questa decisione ha scioccato Jeremy Rifkin, teorico ambientalista, consulente dell’Unione Europea da un decennio e uno dei principali sostenitori della nuova sharing economy. In un articolo del 3 settembre Rifkin dice che il successo di Uber “è in larga parte dovuta alla trasformazione dell’Internet in una super Internet delle Cose, permettendo ai servizi di carsharing e altri tipi di imprese di operare nei ‘Collettivi Collaborativi’, a costo marginale quasi zero, battendo la concorrenza delle imprese tradizionali con i loro costi fissi e marginali più alti”.
Per Rifkin il progresso delle nuove reti è inevitabile e i governi dovranno in qualche modo adeguarsi. Il problema è che, come in passato quando sosteneva la necessità di affidare i servizi di welfare sempre di più ai privati e di smettere di invocare il ruolo dello Stato, nei fatti Rifkin finisce per utilizzare la ricerca dell’efficienza attraverso l’interazione sociale per minare l’efficacia delle regole pubbliche.

A prescindere dagli obiettivi discutibili di uno come Rifkin, l’espansione dell’Internet delle Cose pone delle questioni importanti in merito al ruolo degli stati, e anche per la sicurezza dei cittadini. Un aumento dell’efficienza non sempre corrisponde a maggior sicurezza. Oltre agli esempi citati sopra basti considerare la delocalizzazione del lavoro: secondo i fautori del liberoscambismo sarà il mercato a decidere chi deve produrre che cosa. Nel vicino 2008 il noto Prof. Francesco Giavazzi dichiarò pubblicamente durante una conferenza a Milano che l’Europa non deve produrre beni fisici in quanto area destinata solo ai servizi. (Sembra che in parte i governi europei lo abbiano ascoltato, attuando una politica di austerità che ha ridotto di parecchio la produzione industriale.)
Tuttavia rimane la concezione dell’interesse nazionale, che dovrebbe portare la politica a pensarci tre volte prima di rinunciare al controllo sui settori strategici e affidarsi solo all’estero, e non solo perché si tende a produrre disoccupazione in casa. Dall’energia ai trasporti alla difesa e molto altro, ci sono settori che comportano dei costi, ma che senz’altro sono fondamentali se si vuole essere una società benestante e sovrana.
Naturalmente il punto di questo articolo non è di mettere in discussione l’innovazione e l’importanza di nuove reti. Stiamo vivendo un’ondata di aumenti dell’efficienza grazie al fatto che siamo sempre più collegati, le reti possono aiutare a distribuire i servizi in modo sempre più efficiente. In alcuni casi però l’avanzare di questi processi viene utilizzato in modo speculativo, sia per raggiungere degli obiettivi politici non dichiarati sia per spostare i costi sui consumatori, sui più deboli.
L’efficienza delle reti moderne ci migliora la vita tutti i giorni. Quello che non deve fare invece, è offuscare la differenza tra una migliore organizzazione dei fattori esistenti e la necessità di investimenti per garantire la sicurezza economica della popolazione in termini sia fisici che sociali.

Andrew Spannaus, 10 settembre 2014

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