Trump rally

Trump e le primarie repubblicane

June 4, 2022

Notizie, Politica

Si avvicinano rapidamente le elezioni di medio termine negli Stati Uniti, in cui si rinnoverà l’intera Camera dei Deputati e 35 su 100 senatori. E’ in ballo anche il controllo dei parlamenti statali e di 36 governatorati. Mentre la tendenza generale è decisamente favorevole ai repubblicani, considerando la debolezza di Joe Biden nei sondaggi e i persistenti problemi economici come l’inflazione e le difficoltà di alcune filiere produttive – al momento si registra una mancanza di latte artificiale per i bambini – la domanda più significativa per il mondo politico è quanta influenza ha ancora Donald Trump nel partito repubblicano.

Il tema è importante per vari motivi. Dopo l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021 alcuni politici repubblicani sembravano disposti ad abbandonare il presidente uscente per difendere l’inviolabilità delle istituzioni democratiche del Paese; ma dopo poche settimane è diventato evidente che mettersi contro Trump comportava un rischio per qualsiasi politico repubblicano, in quanto anche dopo la fine disastrosa della sua presidenza, Trump si è dimostrato in grado di mobilitare una fetta importante della base attivista del partito. Dunque criticare l’ex presidente significa subire non solo i suoi attacchi diretti, ma soprattutto il rischio di un avversario più conservator-populista nelle primarie, e quindi la perdita del posto. Infatti nelle primarie votano pochi cittadini – spesso intorno al 20% – allora difendersi contro la base trumpiana inferocita risulta tutt’altro che facile.

Gli strascichi delle elezioni del 2020 sono ancora ben presenti, con il rischio di una ripetizione delle contestazioni del risultato in alcuni stati nelle elezioni del prossimo novembre, o anche di una vera crisi costituzionale nelle presidenziali del 2024, se i parlamenti statali dovessero cercare di esercitare un potere di veto sui risultati ufficiali da trasmettere a Washington; processo già in atto grazie e numerose leggi locali varate nel corso dell’ultimo anno.

C’è un altro tema importante, però, oltre quello della cosiddetta “integrità” del voto: si tratta della futura direzione del partito repubblicano su temi come l’economia e la politica estera. La questione è quanto rimarrà della svolta anti-globalizzazione in termini sostanziali. Trump ha infatti contribuito ad un cambio di rotta importante nella politica americana, ma è evidente la difficoltà di separare gli aspetti economici e strategici dall’approccio socioculturale “populista”, come si è visto ampiamente anche in Europa negli ultimi anni.

Si sono svolte diverse elezioni primarie nelle ultime settimane, sia con successi che fallimenti per Trump. L’ex presidente ha sostenuto apertamente numerosi candidati, sperando di svolgere il ruolo di kingmaker nel partito. In alcuni casi ha funzionato, in altri no. Tra quelli più degni di nota c’è la vittoria di J.D. Vance nelle primarie per il Senato nell’Ohio; Vance è l’autore del libro best-seller Hillbilly Elegy che fa luce sulle difficoltà per le classi medio-basse negli Stati Uniti, lasciate indietro dalle “élite e dalla classe dirigente… che hanno saccheggiato questo paese” nelle parole dello stesso Vance.

Dopo aver criticato Trump in passato, Vance ha deciso di abbracciarlo per ottenere un vantaggio in una primaria molto contestata. Le analisi dicono che il sostegno di Trump lo ha aiutato, come si è visto con altri candidati per esempio nel West Virginia e in Indiana. Questi successi hanno dimostrato l’influenza non solo di Trump, ma anche del populismo di destra in generale, in cui i candidati hanno promosso posizioni anti-sistema in merito non solo alle elezioni del 2020, ma anche della pandemia, insieme ad una forte contestazione su temi culturali come il gender e le accuse di razzismo.

Dall’altra parte ci sono anche i fallimenti di Trump. Un esempio lampante viene dalla Georgia, stato governato dai repubblicani ma dove i funzionari pubblici si sono comunque rifiutati di assistere Trump nella sua battaglia per ribaltare l’esito dell’elezione contro Biden. Per questo il Segretario di Stato Brad Raffensperger, responsabile della certificazione del voto, è diventato il bersaglio numero uno di Trump. Ma nonostante questa opposizione Raffensperger ha vinto facilmente la sua primaria, come ha vinto anche il governatore uscente della Georgia Brian Kemp, il cui avversario era appoggiato espressamente da Trump.

Con questi risultati si vede che il brand trumpista non ha valore assoluto nel partito; può spostare dei voti in alcune situazioni, ma i repubblicani farebbero bene a ricordare che il potere di questa fazione ha dei limiti, e che una maggioranza degli elettori statunitensi preferisce che Trump non si ricandidi nel 2024; tra i soli elettori repubblicani i favorevoli salgono di poco sopra il 50%, ma sembra chiaro che sarebbe molto difficile ipotizzare un ritorno effettivo alla Casa Bianca.

E’ sulle politiche sostanziali che si gioca la partita più a lungo termine. Trump era riuscito a battere l’establishment del partito criticando la globalizzazione finanziaria e le guerre infinite nel Medio Oriente. Oggi si vede uno spostamento in questa direzione nel partito, anche se le posizioni tradizionali, più aggressive, rimangono maggioritarie.

Nel voto del più recente pacchetto per mandare altri aiuti all’Ucraina si sono opposti ben 57 repubblicani alla Camera e 11 al Senato, indicando una fazione crescente che dà voce alla richiesta popolare di non immischiarsi nei conflitti all’estero; non solo “America First”, nel senso di pensare ai problemi in casa piuttosto che quelli degli altri, ma anche un forte scetticismo verso le ragioni dell’ala ancora neoconservatrice del partito.

Un ottimo esempio viene dal cambiamento di orientamento della Heritage Foundation, ente fondamentale nel mondo conservatore, che in passato ha sempre sostenuto una politica estera aggressiva, per esempio appoggiando le guerre in Iraq e in Afghanistan. Dalle critiche a Barack Obama di aver esercitato troppo poco l’arma militare durante i suoi mandati, sono passati ad una posizione anti-interventista più in linea con l’approccio di Donald Trump. “E’ il compito dei conservatori a Washington di collegarsi con i conservatori fuori da Washington – ha dichiarato il presidente del gruppo Kevin Roberts al New York Times il 27 maggio – non il contrario”. Il cambiamento si vede anche in termini economici. La rivista Reason, che esprime posizioni fortemente liberiste in economia, ha scritto recentemente che oggi troppi conservatori abbracciano gli strumenti dell’intervento pubblico, indicando “un forte rigetto dei mercati liberi e dell’idea propria di governo limitato”.

– Newsletter Transatlantico N. 20-2022

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