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I costi della catena del valore

May 20, 2019

Economia, Notizie

– di Andrew Spannaus –

In questo periodo di grande preoccupazione per il protezionismo e per le ricadute sul commercio mondiale, si tende a dimenticare il motivo principale per cui si spostano le merci da un capo del mondo all’altro: per ridurre i costi. La delocalizzazione che ha accompagnato la globalizzazione dei mercati negli ultimi decenni è iniziata come un modo per sfruttare il lavoro a basso costo, e anche le regole meno stringenti sul lavoro e sull’ambiente. Quando oggi si parla dei grandi benefici dell’integrazione dell’economia mondiale, si tende a dimenticare gli effetti negativi del sistema attuale, effetti che potrebbero essere ridotti attraverso un cambiamento della struttura del commercio globale.

Donald Trump minaccia e applica dazi contro altri paesi con l’obiettivo di ridurre il deficit commerciale degli Stati Uniti, e di favorire la manifattura americana. Per gli economisti neoliberali si tratta di eresia, cioè l’idea che la politica debba influenzare le scelte di produzione, visto che in teoria il “mercato” dovrebbe allocare in modo più efficiente le risorse. Ma ci sono forti argomenti per una riorganizzazione dei metodi attuali di produzione, non solo guardando l’ampio utilizzo di strumenti simili nella storia lontana e recente (dell’America e di altri paesi), ma soprattutto quando si considerano gli effetti sulla classe media dei paesi industrializzati, e anche sull’ambiente naturale.

Sul primo punto si è detto e scritto tanto: la perdita di posti di lavoro nelle manifatture è stata devastante per i ceti medi negli Stati Uniti e in Europa. La trasformazione post-industriale delle economie avanzate ha avvantaggiato la parte più benestante della società, e reso la vita più costosa e precaria per quelli in mezzo e in basso. Il risultato è la rivolta populista esplosa dal 2016 in poi, in cui la protesta contro l’establishment è cresciuta sul terreno fertile delle difficoltà economiche provocate dalla globalizzazione, e dalle politiche di austerità che hanno peggiorato gli effetti della crisi finanziaria scoppiata nel 2008-2009.

Mantenere la produzione industriale in un paese con costi più alti può sembrare anti-economico per chi mira a massimizzare il shareholder value nel breve termine. E certamente è vero che lo spostamento delle attività ha portato nuovo lavoro in paesi poveri. Ma questo ragionamento riflette una visione superficiale dei processi economici. Sul lato dei prezzi, è fin troppo facile controbattere: chi produce è in grado anche di consumare; mentre chi guadagna poco, compra poco. Infatti i paesi più benestanti nel mondo sono quelli con i prezzi alti, non il contrario. Per quanto riguarda la crescita dei paesi poveri, occorre uscire dall’idea di un gioco a somma zero, da una corsa verso il basso. Per quale motivo l’unico modo di svilupparsi dovrebbe essere di offrirsi come un paese con il costo del lavoro basso e senza regole? Piuttosto, i governi dovrebbero impostare dei piani di sviluppo che mirano ad aumentare il tenore di vita della propria popolazione, anche se piacciono poco ad organismi internazionali come il Fondo Monetario Internazionale.

L’ambiente

Oltre agli effetti ecologici evidenti nel concentrare la produzione laddove le normative ambientali sono scarse o inesistenti, il sistema della globalizzazione determina un altro contributo all’inquinamento globale: gli effetti del trasporto continuo di merci intorno al mondo. Si stima che oltre metà dei beni trasportati siano beni intermedi, molti addirittura intercompany. Cioè, la global supply chain, il sistema per cui un bene finito contiene componenti lavorati in numerosi paesi diversi, si basa su una rete complessa di forniture che vanno a comporre il costo finale di un prodotto.

Oggi nell’Occidente compriamo tanti prodotti “Made in China”. E’ verissimo che ormai in Cina aumentano i costi, aumenta il tenore di vita della popolazione, e aumenta la qualità. E’ altrettanto indubbio che la produzione di milioni di prodotti rimane in paesi lontani semplicemente perché i costi per le società produttrici sono più bassi. Ma in questo caso si ignorano i costi meno visibili, come quelli dell’inquinamento.

Le automobili sono soggette a normative sempre più stringenti in termini di emissioni; finora le regole per le navi, invece, sono state molto meno restrittive. L’anno scorso l’International Maritime Organization delle Nazioni Unite ha annunciato nuove norme per limitare le emissioni dello zolfo, sostanza accusata di essere la causa di malattie respiratorie e anche di piogge acide. L’agenzia ha capito che i limiti attuali vanno ridotti fortemente, e così dal 2020 saranno vietati i carburanti con un contenuto di zolfo oltre lo 0,5%, rispetto alla soglia attuale del 3,5%.

Le preoccupazioni nel settore sono alte, in quanto si stima che i costi delle spedizioni via mare potrebbero aumentare di circa il 25%.(1) E’ probabile che una fetta consistente delle navi cercherà di evitare le nuove regole per un certo periodo, ma se la maggior parte degli spedizionieri adotteranno i nuovi standard, alla fine saranno i consumatori a pagare i costi più alti. Dunque si comincia a vedere che il prezzo di produrre dall’altra parte del mondo forse non è così basso, solo che finora si sono ignorati i costi ambientali di questo sistema; e questo è solo un aspetto tra molti.

La risposta popolare agli effetti della globalizzazione ha diverse sfaccettature. Una di queste è la perdita dell’identità produttiva di una società, l’orgoglio e i benefici che derivano dalla creazione di valore. Le trasformazioni tecnologiche sono necessarie ed inevitabili nel tempo, e ci sono campi in cui il commercio internazionale è necessario e vantaggioso, soprattutto per i paesi non ancora in grado di provvedere ai propri bisogni essenziali. Ma questa realtà non va utilizzata come scusa per mascherare una politica che mira ad estrarre il massimo del valore possibile per gli azionisti grazie ad una riduzione dei costi sociali e anche sull’ambiente naturale. Alla fine quei costi si pagano, nel deterioramento dell’ambiente, e anche in termini politici.

(1) https://uk.reuters.com/article/us-shipping-fuel-sulphur/new-rules-on-ship-emissions-herald-sea-change-for-oil-market-idUKKCN1II0PP

– Newsletter Transatlantico N. 16-2019

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