Brexit: commento da Bruxelles

June 27, 2016

Notizie, Politica

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Superare il tempo della rabbia dopo la Brexit

– di Gerardo Fortuna, Bruxelles –

Tutti i divorzi si portano dietro un senso genuino di tristezza, anche quando non ci si è mai amati davvero. Poi subentra il tempo della rabbia, durante il quale domina la voglia di veder distrutto chi ti ha voltato le spalle per riprendere, da solo, la propria strada. È una spirale in cui prende il sopravvento quasi un desiderio dell’altrui sventura, fino a forme di comportamenti sempre più irrazionali. Non si ammettono sconti, non si vogliono comprendere le ragioni dell’altro: si pensa solo a colpire duro. È il sentimento che sta montando a Bruxelles, dopo che venerdì l’Europa si è svegliata tradita, offesa e mutilata di una sua parte.

Il primo passo ispirato dalla rabbia l’ha compiuto il Parlamento europeo, che proprio venerdì ha esercitato pressioni su Juncker affinché il commissario britannico ai servizi finanziari, Jonathan Hill, rimettesse il suo mandato. Hill, dimessosi effettivamente il giorno dopo, era uomo di Cameron e questo ha inciso, come anche il fatto che proprio la sua materia di competenza sarà oggetto di trattative delicatissime al momento di negoziare sul divorzio. Ma Hill paga anche la colpa di rappresentare il Regno Unito, diventando così il primo capro espiatorio sull’altare della rabbia e della vendetta.

È questa una pessima mossa politica, perché il Regno Unito mantiene il suo status di membro dell’Unione fino all’entrata in vigore dell’accordo di recesso. Vanno pertanto garantiti a Londra tutti i diritti, tra cui quello di avere un Commissario, se si vuole che si conformi anche agli obblighi che derivano dal trattato. Il pensiero va soprattutto ai quasi tre milioni di cittadini europei che ancora vivono nel Regno Unito e che potrebbero essere soggetti a diverse discriminazioni, specie in ambito lavorativo. Questi cittadini europei hanno il diritto di poter adire gli organi competenti in caso di discriminazione per tutta la fase di transizione, almeno fino a quando non si dipanerà l’incertezza relativa al loro status all’interno del paese. Iniziando a limitare le facoltà del Regno Unito che discendono dall’essere membro, il rischio è quello di lasciare questi cittadini ancora più esposti da una situazione che non dipende dalla loro volontà.

Ed è sempre con gli occhi della rabbia che si sono letti i risultati del referendum, arrivando addirittura a demonizzare una categoria sociale, quella dei pensionati, accusata di aver rubato il futuro ai giovani (che in realtà hanno partecipato davvero poco alla tornata elettorale). È una retorica anti-democratica che fa il gioco dei populisti, laddove accusano l’Europa proprio di una mancanza di democrazia.

Dai dati del referendum non si deve estrarre una categoria contro cui prendersela, ma il dato di un Paese letteralmente spaccato. E non solo sulla questione principale, quella relativa all’uscita dall’Unione. Il Regno Unito esce dal referendum con le ossa rotte e non per le conseguenze della Brexit, che nessuno ancora può e sa prevedere, ma per il quadro che ne emerge di un Paese in “crisi significativa”, come è stato descritto opportunamente da una fonte europea domenica sera.

Il partito al governo è stato dilaniato da una faida interna, di cui il referendum stesso è figlio. Una situazione resa molto bene dal titolo del Sunday Telegraph di domenica, “tories at war”. Ma un conflitto strisciante imperversa anche nei banchi dell’opposizione, dove ben dieci ministri dello shadow government si sono dimessi in netta polemica con la leadership labour di Corbyn. Si è parlato in modo imprudente di scontro generazionale senza tenere conto del fatto che ci sono classi sociali nel paese che ormai non comunicano più. L’ago della bilancia sull’esito è stato il vecchio ceto industriale del Inghilterra settentrionale che ha reclamato quell’attenzione negata sin dalla prima ondata neoliberista. E in più si aggiunge la minaccia all’unità nazionale, con la Scozia sull’orlo della secessione e la possibilità di riunificazione irlandese, che resta in realtà ancora di difficile attuazione.

La crisi politica sarà affrontata nei prossimi mesi da un governo facente funzioni ma di fatto dimissionario e da un Parlamento non aderente alla volontà popolare di lasciare l’Ue, perché composto per 2/3 da deputati favorevoli alla permanenza.

Il gioco della rabbia deve interrompersi proprio dinnanzi alla constatazione di questa crisi che i cittadini britannici vivono sulla propria pelle. Anche se non è mai stato amore, l’Europa deve augurarsi che il Regno Unito, questa volta come alleato e non come membro di una famiglia comune, possa ritrovare la stabilità politica, una leadership forte e una rinnovata forma di unità nazionale. Le storie del Regno Unito e del continente continueranno a intrecciarsi e l’Europa ha bisogno di un alleato forte.

Questo non vuol dire assumere una posizione molle. Fa bene l’Unione a chiedere che il Regno Unito attivi al più presto possibile la procedura di recesso all’art. 50, per porre fine a quel clima di incertezza che sta solo danneggiando entrambe le parti. Fa bene anche a voler essere rigida nei negoziati, perché consapevoli che proprio dalle condizioni che il Regno Unito strapperà in sede di trattative dipenderà se ci sarà o meno il temuto effetto domino di altre richieste di recesso.

Ma il Regno Unito costituisce un’entità politica con cui l’Europa ha condiviso un passato comune e si troverà a condividere anche il futuro, indipendentemente dalla forma che questa relazione avrà. L’Europa deve avere memoria storica dei suoi errori: poco meno di un secolo fa la rabbia e il desiderio di vendetta che impregnò le richieste di Versailles portò il continente sull’orlo di una guerra sanguinosa. Vedremo ora se abbiamo imparato dai nostri errori.

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