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Gli USA tra intervento e diplomazia

March 19, 2014

Interventi, Strategia

Intervento di Andrew Spannaus in occasione del convegno:

“Le tensioni del Medio Oriente e i possibili sbocchi della crisi siriana”.

Sala delle Colonne di Palazzo Marini (Camera dei Deputati)

11 marzo 2014

Gli USA tra intervento e diplomazia

Dalla Libia all’Ucraina, l’orientamento dell’Amministrazione Obama nelle crisi internazionali. 

Buonasera. Innanzitutto ringrazio gli organizzatori per avermi invitato ad intervenire in questo importante convegno.

Per iniziare, vorrei dire qualche parola sull’aspetto economico in relazione alla situazione strategica. La politica occidentale di espansione, anche militare, a mio avviso riflette in realtà una debolezza: da decenni abbiamo attuato una politica che ha indebolito l’economia reale, favorendo invece l’aspetto finanziario. Questo porta ad una perdita di influenza reale nel mondo, a cui si cerca di supplire con il tentativo di mantenere ed espandere l’ influenza in zone importanti del mondo, per esempio fino ai confini della Russia.

Quando guardiamo la situazione della Siria, dunque, dobbiamo considerare la situazione strategica, e non considerare la Siria come un caso a sé, ma piuttosto come un tassello del processo più ampio della politica estera Usa, e questo significa soprattutto le relazioni con la Russia.

Da questo punto di vista vorrei tornare un attimo all’accordo sulla distruzione delle armi chimiche dell’anno scorso, che credo abbia rappresentato un momento cruciale. Tale accordo potrebbe – o forse avrebbe potuto, dati gli sviluppi successivi – dare il via ad un cambiamento significativo dei rapporti occidentali con il Medio Oriente allargato, e anche con la Russia. Questo perché ha rimosso la minaccia di un altro intervento militare occidentale – almeno temporaneamente – rappresentando un ritorno alla diplomazia che ha favorito anche il nascente accordo con l’Iran sulla questione nucleare.

Purtroppo però, questo processo, questa speranza di iniziare una correzione di rotta, rischia di rimanere schiacciata dagli eventi intorno all’Ucraina, che stanno riportando al centro lo scontro strategico Est-Ovest perseguito da alcune fazioni negli ultimi decenni.

Per tornare alla questione dell’accordo, all’inizio del settembre 2013, in risposta al presunto attacco chimico da parte del Governo di Bashar el-Assad a Ghouta, il presidente Obama era pronto a ordinare il bombardamento delle posizioni governative in Siria. Nei mesi precedenti Obama aveva tracciato una linea rossa, volendo dimostrare di essere risoluto di fronte alle critiche da parte dei falchi. Le parole contano, e così quando sembrava confermato l’attacco chimico Obama pensava di dover per forza intervenire.

All’ultimo momento però, qualcosa è cambiato. Il presidente ha accettato la proposta di Putin per la rimozione delle armi chimiche. Non sappiamo esattamente cosa ha causato questo cambiamento, ma due dei fattori principali sono stati l’opposizione del Congresso, e quella delle istituzioni militari.

Secondo il noto giornalista Seymour Hersh – diventato famoso ai tempi del massacro di My Lai in Vietnam – stava avvenendo un processo di manipolazione dell’intelligence sulla Siria che ricorda quello intorno alle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein. L’ipotesi fatta da Hersh è: ad un certo punto Obama o alcune persone intorno a lui avrebbero capito che non c’erano le prove schiaccianti e che la comunità d’intelligence e i suoi consiglieri più interventisti lo stavano spingendo verso un intervento militare con conseguenze difficili da prevedere. A quel punto Obama avrebbe deciso di cambiare rotta repentinamente, abbandonando i piani per l’intervento militare.

A mio avviso l’accordo sulla rimozione delle armi chimiche è stato molto importante, non perché ha risolto la questione siriana; anzi, la situazione è disastrosa per la popolazione, e si sta rivelando molto difficile fare progressi nei negoziati. E’ stato importante perché ha stabilito una base per la cooperazione tra le grandi potenze, piuttosto che un ulteriore aumento delle tensioni.

Potrebbe portare ad un cambiamento di direzione dalla politica che va avanti da molti anni.

Prima di Obama c’era l’Amministrazione di George W. Bush. Dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 la politica dei neoconservatori aveva preso decisamente il sopravvento, con la guerra in Iraq e la concezione della “clean break”, la “rottura secca” per ridisegnare il quadro in Medio Oriente, esportando la democrazia.

Con l’arrivo di Barack Obama tutto questo avrebbe dovuto cambiare. Ma è diventato presto evidente che mentre tra i repubblicani c’erano i neocon, tra i democratici ci sono gli interventisti che propongono il “diritto di proteggere” – right to protect, concezione promossa in giro per il mondo dall’ex premier britannico Tony Blair. (ricordiamo il suo ruolo anche per l’Iraq)

Obama ha sempre dato spazio ai propugnatori di questa dottrina, dando ruoli di primo piano a Susan Rice e Samantha Power per esempio, ora rispettivamente Consigliere per la Sicurezza Nazionale e Ambasciatrice degli Stati Uniti all’ONU.

Insieme ad una comunità di intelligence intenta a proseguire la Guerra al Terrore con metodi al confine – e a volte oltre il confine – della legalità, l’Amministrazione Obama non è stata molto diversa da quella di Bush.

C’è stato per esempio l’intervento in Libia; un intervento cosiddetto umanitario, che in realtà è stato preparato bene per tempo da certi attori esterni.

Poi nel nome di contrastare il nemico ci siamo immischiati con gruppi di opposizione legati agli estremisti e al terrorismo, molti dei quali sono poi andati a fare la guerra ad Assad in Siria, assieme agli affiliati ad Al-Qaeda o altri gruppi terroristici dell’Asia Centrale.

L’eccezione a questa politica è rappresentata dagli sforzi dell’Amministrazione Usa a trovare un accordo con l’Iran. Obama l’aveva promesso già durante la campagna elettorale del 2007-2008, e aveva fatto un primo tentativo nel 2009, risultato vano a causa di numerosi fattori, dai contrasti dentro l’Amministrazione stessa, al ruolo di certi paesi europei come la Francia e la Gran Bretagna, allo scontro e alla repressione dentro l’Iran stesso.

A partire dalla fine del 2012 circa, gli sforzi sono ripresi, con trattative segrete tenute nell’Oman per molti mesi nel corso del 2013. Successivamente sono stati coinvolti gli altri paesi del P5+1, i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU più la Germania, e si è arrivato all’accordo preliminare.

Anche qui la strada non è stata, e non sarà, facile. C’è una campagna di forti pressioni nel Congresso americano, guidata da AIPAC – che per ora è stata bloccata.

La Francia ha fatto delle richieste all’ultimo minuto che hanno rischiato di fare saltare l’accordo.

E c’è l’opposizione da parte di Israele e dell’Arabia Saudita. I governi di questi paesi sono contrari all’accordo e per ora non sembrano essere favorevoli ad una svolta verso la diplomazia e la cooperazione.

Nel caso di Israele la volontà di mantenere la linea dura contro l’Iran è nota, anche se in queste settimane si rilevano delle potenziali aperture soprattutto dalle istituzioni militari e d’intelligence israeliane.

L’Arabia Saudita invece, rischia di perdere molto in caso di un cambiamento di direzione. Ho scritto alcuni articoli recentemente sul ruolo dei sauditi nel finanziare i gruppi estremisti e l’interesse nel mantenere una sorta di strategia della tensione. I sauditi temono che un accordo con l’Iran potrebbe rappresentare una rottura del rapporto speciale di cui hanno beneficiato con l’Occidente negli ultimi decenni. Si tratta di un bel paradosso: l’Occidente sostiene il paese che più di altri ha sostenuto i gruppi terroristici che attaccano l’Occidente stesso. E’ un meccanismo che va compreso, e cambiato.

Ma torniamo al settembre 2013. Nel suo discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Uniti pochi giorni dopo l’annuncio dell’accordo sulle armi chimiche siriane, il presidente Obama ha pronunciato alcune parole che mi hanno colpito, ma che non sono state molto notate. Ha detto “…mentre cerchiamo un accordo, ricordiamoci che non si tratta di un’impresa a somma zero. Non siamo più in una guerra fredda. Non c’è nessun grande gioco da vincere”.

Ha parlato del “Grande gioco”, il Great Game – cioè lo scontro strategico rappresentato storicamente dalle operazioni militari e d’intelligence britanniche per contrastare l’influenza della Russia nell’Asia Centrale e nel Medio Oriente, dall’Afghanistan all’impero ottomano alla Persia.

Con la sua volontà di smentire l’intenzione di portare avanti questo scontro, ha nei fatti confermato che alcuni vedono la situazione proprio in questi termini, e che lui ne è cosciente; dovrebbe esserlo, in quanto una bella fetta della sua Amministrazione si comporta in questo modo, e le sue stesse politiche in molti casi riflettono questa strategia.

E’ proprio il nuovo grande gioco che definisce il contesto in cui avvengono gli interventi e gli scontri in tutta la zona che più tardi nel tempo Bernard Lewis avrebbe definito l”Arco della Crisi”, la zona che va dal Nord Africa fino all’Asia Centrale.

L’intervento in Libia ha rappresentato per i russi un punto di rottura, portandoli a reagire contro il modo in cui Ghedaffi è stato ucciso e a come i paesi occidentali si sono imposti rapidamente. Un aspetto di questa risposta è che la Russia ha aiutato Assad non poco, considerando i propri interessi strategici in gioco in Siria, e ammonendo contro una soluzione “libica” anche in quel paese.

La domanda è: ma davvero non c’è più il Grande Gioco?

Una cosa sono le parole, altro sono i fatti di politica estera. Obama può dirlo, ma conta quello che si fa e quello che viene percepito da parte degli altri attori internazionali. Senza la collaborazione di paesi esterni, dalla Russia all’Iran, sarà molto difficile migliorare – per non dire risolvere – la situazione in Siria. Se da entrambe le parti ci si continua a muovere nell’ottica di sottrarre zone di influenza uno all’altro, si continuerà con il gioco geopolitico degli ultimi decenni.

 Da questo punto di vista, la situazione dell’Ucraina diventa dominante, e rischia di riportarci ad uno scontro Est-Ovest che oltre ai rischi propri di allargamento, potrebbe avere conseguenze per la risoluzione di altre situazioni di conflitto, soprattutto in Medio Oriente.

Comincia a farsi strada in Europa la consapevolezza che la situazione ucraina è complessa – anche nel Governo italiano – e non va semplificata con una semplice rappresentazione di buoni contro cattivi.

La protesta pacifica e in buona fede degli ucraini pro-europei è stata sfruttata da gruppi violenti ed estremi – tra cui partiti apertamente neo-nazisti – per promuovere se stessi e garantire un cambiamento anche fuori dalla legalità.

E’ un copione già visto: se da una parte la Russia è intervenuta a fasi alterne con aiuti e pressioni, dall’altra i governi e i gruppi privati in Occidente hanno speso miliardi di dollari negli ultimi anni per promuovere le rivolte.

Presa insieme alla campagna d’espansione della NATO ci troviamo con un mix esplosivo, in cui la Russia che ha visto un crollo drammatico nelle condizioni di vita negli anni Novanta grazie anche alle ricette iperliberiste degli economisti occidentali, ora si sente accerchiata e risponde cercando di garantirsi una zona cuscinetto verso l’Occidente.

E’ da notare che si sta formando un partito di realisti tra gli strateghi geopolitici, perfino da parte di personaggi come Henry Kissinger e Zbigniew Brzezinski – che pure hanno fatto molto per portare avanti il Grande Gioco in passato. Dicono che bisogna rinunciare all’idea di fare entrare l’Ucraina nella NATO, pena il pericolo di uno scontro a livelli che sarebbe meglio per tutti evitare. Mentre è positivo che si punti il dito sulla questione dell’espansione della NATO, tra i fattori principali che guidano lo scontro, non possiamo fidarci di personaggi come questi, che in fondo non ammettono la realtà della politica come sfida strategica, anzi ne hanno fanno parte.

In ogni caso bisogna andare oltre l’idea di trovare un modo di gestire dei punti di crisi specifici. A mio avviso è molto importante anche rivedere i nostri assunti di politica economica, il vero problema a monte dello scontro. Negli anni Novanta, subito dopo la fine dell’Unione Sovietica, i russi hanno chiesto aiuto all’Occidente per ricostruire la propria economia. Noi abbiamo mandato i professori di Harvard, e delle scuole di Londra, ad applicare le ricette della terapia choc, che hanno peggiorato di molto la situazione. Allo stesso tempo, negli ultimi vent’anni i governi occidentali, insieme a vari gruppi privati, ONG ecc., hanno speso tantissimi soldi per promuovere i gruppi democratici che volevano rovesciare i governi. Ma la politica economica associata a questa campagna è quella del Fondo Monetario Internazionale, delle “riforme strutturali”, per capirci. Cosa faremo per aiutare l’Ucraina? Vogliamo applicare le riforme come in Grecia? Se gli aiuti che offriamo assomiglieranno alla politica di austerità e di promozione della finanza speculativa che hanno caratterizzato gli interventi negli ultimi anni nell’Unione Europea e anche negli Stati Uniti – sarà il modo di garantirsi ulteriori sconvolgimenti e scontri nel prossimo futuro.

In conclusione, per poter parlare del ruolo degli Stati Uniti in Siria dobbiamo pensare a quali siano i veri interessi in gioco; qual è il fine ultimo della politica estera americana, o anche europea nella regione? Occorre essere chiari sulla visione del mondo, ed evitare atteggiamenti di scontro.

Mi auguro che si potrà riprendere il cammino del dialogo e della cooperazione tra tutte le potenze coinvolte, sfruttando le novità degli ultimi mesi. Tuttavia, se non affronteremo il contesto strategico generale, sarà molto difficile vedere dei progressi in Siria. Lo scontro in atto tra l’Occidente e la Russia rischia di vanificare gli sforzi recenti, e riportarci tutti ad una situazione di pericolo da cui potrebbe essere difficile uscire.

N.B. Si tratta del testo del discorso preparato e non della trascrizione esatta

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