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Riforma delle popolari, un favore alle Big Banks

January 26, 2015

Economia, Migliori, Politica

(free) –

di Nicola Oliva

Con il decreto Investment Compact il governo Renzi ha approvato un pacchetto di misure tra le quali compare la contestatissima riforma delle Banche popolari, che ne impone la trasformazione in società per azioni quando l’attivo è superiore a 8 miliardi di euro, con il duplice obiettivo di «rafforzare il settore bancario e adeguarlo allo scenario europeo» e «garantire che la liquidità disponibile si trasformi in credito a famiglie e imprese e favorire la disponibilità di servizi migliori e prezzi più contenuti».

Nello specifico, si interviene a modificare gli articoli 29 – Le banche popolari sono costituite in forma di società cooperativa per azioni a responsabilità limitata – del Testo Unico Bancario (Tub) e art. 30 che tra i vari punti indica:

  1. Ogni socio ha un voto, qualunque sia il numero delle azioni possedute.
  2. Nessuno, direttamente o indirettamente, può detenere azioni in misura eccedente l’1 per cento del capitale sociale, salva la facoltà statutaria di prevedere limiti più contenuti, comunque non inferiori allo 0,5 per cento.

Da sottolineare quello che è il tratto essenziale della banca popolare: la presenza di un limite massimo alla partecipazione individuale al capitale; inoltre, v’è il principio di «ogni testa ha un voto», com’è proprio delle banche di credito cooperativo: ogni socio può esprimere un solo voto nell’assemblea degli azionisti, indipendentemente dal numero di azioni possedute.

Ne consegue che le banche popolari non sono scalabili né acquisibili da alcun soggetto, ma solo con un ampio consenso tra i soci.

E’ il normale funzionamento di una qualsivoglia cooperativa.

Storicamente le cooperative nascono per soddisfare una finalità mutualistica – La definizione della Treccani è la seguente: «Le banche popolari sono istituti di credito che comparvero nella seconda metà dell’ottocento per diffondere il risparmio e consentire l’accesso al credito delle fasce sociali meno agiate dei centri urbani allo scopo di promuovere la modernizzazione delle loro attività economiche».

Nel caso delle Banche popolari la mutualità per i soci si ritrova nella possibilità di prestare un servizio, il credito appunto, valorizzando il risparmio popolare, che pure è un bene tutelato dalla nostra Costituzione.

Per cui, in sintesi, siamo dinanzi ad una esperienza di credito cooperativo con azionariato diffuso, non asservito al capitale di alcun soggetto in posizione di supremazia, sviluppatosi a vista d’occhio e alternativo al modello giuridico delle società per azioni, che perseguono la massimizzazione degli utili.

Al contempo, teniamo conto delle critiche che fioccano sulle più grandi banche popolari, così come nelle grandi cooperative, riguardo a mutualità debole che svilisce la figura del socio.

Ma allora si intervenga per rafforzare nello statuto i tratti della mutualità, riformando pure la governance se del caso.

Perchè mai agire d’imperio per trasformarle in banche società per azioni?

Che forse qualcuno ha proposto di trasformare in forma cooperativa le grandi banche dopo la crisi finanziaria del 2008?

Oltretutto, le Banche popolari erogano volumi di credito più alti delle altre Banche che hanno forma di società per azioni, contraddicendo lo spirito che muove il decreto governativo, come riporta l’ufficio studi della CGIA Mestre:

«Nell’arco di tempo che va dall’inizio della fase di credit crunch (2011) sino alla fine del 2013, le Popolari hanno aumentato i prestiti alla clientela del 15,4 per cento; diversamente, quelle sotto forma di Spa e gli istituti di credito cooperativo hanno diminuito l’ammontare dei prestiti rispettivamente del 4,9 e del 2,2 per cento. Lo stesso trend negativo è stato registrato anche dalle banche estere presenti nel nostro Paese: sempre tra il 2011 e il 2013, i prestiti sono diminuiti del 3,1 per cento».

Ciononostante il Governo asseconda la tendenza europea a negare il pluralismo bancario: se fino agli anni Novanta in Italia vi era la compresenza di istituti bancari pubblici, privati e cooperativistici con differenziazione funzionale e temporale, ovvero con aziende per il credito ordinario a breve termine o a medio-lungo termine, e istituti speciali, con il testo unico bancario del 1993 si afferma il modello della banca universale.

Ricordo di aver seguito la Lectio Magistralis sulla legge bancaria del 1936 tenuta dal Prof. Renzo Costi all’incontro fiorentino presso la Fondazione Cesifin, nel corso della quale si evidenziò il fatto che la concorrenza nel corso del Novecento da mezzo sia stata elevata a fine; inoltre, è interessante sapere che la legge bancaria del 1936 mirava a che non ci fosse il controllo dei privati su credito e industria, e soprattutto, ed è interessante nell’economia di questo scritto, che fosse garantito il pluralismo dei soggetti bancari: erano cioè ammesse le banche pubbliche nella funzione di interesse pubblico del credito e tutta una varietà di istituti.

Con questo decreto, si conferma la tendenza storica, un altro intervento legislativo che potremmo definire illiberale (è il caso di chiamare le cose con il loro nome) proprio perché sopprime il pluralismo.

La tendenza storica in corso sembra penalizzare la forma cooperativa che è accettabile solo se riveste un ruolo residuale e si occupa delle piccole nicchie di mercato locale, pur con un profondo impegno sociale.

Possiamo adesso guardare ai fatti e giudicare sulle motivazioni governative.

Come si è visto, le banche popolari si svilupparono in risposta alla domanda di credito della piccola impresa locale, ed almeno due osservazioni è obbligo farle:

  1. Un efficientamento delle popolari significa guardare di buon occhio le acquisizioni da parte di grandi gruppi bancari esteri che sposteranno altrove i vertici, allontanandosi dai contesti locali e abbandonando la vocazione localista?
  2. Leggendo alcuni stralci del voluminoso rapporto della Commissione Angelides al Congresso USA e seguendo le audizioni al Senato della Sen. Elizabeth Warren si sono appresi tanti casi di malagestione e corruzione bancaria.

Le dinamiche che sfociarono nella crisi del 2008 sono note, mal si comprende una alterazione della verità storica che porta a considerare virtuosi i manager delle Big Banks mentre i presidenti delle banche locali sono per definizione espressione di potere autoreferenziale da scardinare.

Ritorna spesso l’elemento personale: nelle banche popolari ed in genere nelle banche locali contano molto i rapporti personali tra vertici e soci, talvolta si ha buon gioco nell’adombrare rapporti opachi nella concessione del credito. A correggere questi vizi, interverrebbe la trasformazione in spa.

Vi è della malizia nel plasmare l’opinione pubblica verso una soluzione meno premiante per l’esercizio del credito locale.

Se davvero si volessero aumentare i volumi di credito a persone e famiglie, il Parlamento potrebbe discutere uno dei tanti disegni di legge per approvare la legge Glass-Steagall e risolvere alla radice le ragioni della crisi e assicurare una legislazione assai migliore al settore bancario.

Ma il fenomeno in atto trova una possibile logica nella ricerca di soldi freschi per soccorrere quei giganti del credito imbottiti di finanza speculativa.

Alla luce della storia della cooperazione di credito, va salutata con incoraggiamento la risposta compatta dell’Associazione nazionale fra le banche popolari, che non lascerà nulla di intentato perché il Decreto venga meno e l’ordinamento giuridico continui a consentire a tutte le banche popolari di mantenere la propria identità; Assopopolari giudica «il decreto del governo gravido di conseguenze negative sul risparmio nazionale e sul credito famiglie piccole medie imprese, per un paese, come il nostro, privo d’investitori di lungo periodo in aziende bancarie».

Prosegue ancora «non deve esserci una politica economica finalizzata esclusivamente a trasferire la proprietà di una parte rilevante del sistema bancario italiano alle grandi banche internazionali».

E’ uno scontro che potrebbe aprire a nuovi scenari qualora anche nel mondo politico si organizzassero epigoni italiani di Elizabeth Warren.

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  1. Banche: interessi locali v. grandi capitali | Transatlantico - June 17, 2015

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