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Energia e finanza di guerra: dinamiche globali verso le idi di marzo 2024

March 3, 2024

Economia

– di Paolo Balmas –

Gli impegni europei per realizzare un’economia priva di emissioni di CO2 sembrano essere seriamente messi in dubbio dalle dinamiche dei mercati degli idrocarburi e non solo. L’Unione Europea ha fatto del proprio piano di transizione energetica, il Green Deal, il suo cavallo di battaglia. Essendo un piano che riguarda uno dei maggiori mercati di consumo mondiali, con quasi mezzo miliardo di individui, avrà (ha già) ripercussioni a livello mondiale. La guerra, in parte solo economica, fra grandi produttori di idrocarburi (Usa, Russia, Arabia Saudita, Venezuela, Iran, e altri) ha fra i suoi obiettivi assicurarsi porzioni del mercato europeo per i prossimi decenni. Le operazioni di chi produce energia, che sia da fonti fossili o rinnovabili, assume così un carattere geopolitico sempre più marcato. Ciò che si nota è un progressivo abbandono delle politiche green da parte delle grandi compagnie petrolifere accompagnato da spostamenti di capitale in ambito della difesa e di fonti energetiche, specialmente quella nucleare, che aumentano le divergenze fra paesi europei piuttosto che ridurle.

Il rinnovato interesse nel nucleare e la nuova serie di progetti per generare energia nucleare hanno ripercussioni geopolitiche interne all’Europa poiché aumentano la divisione fra chi vuole incentivare questo settore, esportare energia e aumentare le dipendenze di alcune regioni (come fa ad esempio la Francia) e chi lo ha abbandonato come ad esempio la Germania. In Italia, come in ambito dell’Unione, gli interessi a rispolverare l’energia nucleare per raggiungere maggiore indipendenza energetica sono espressi sempre più esplicitamente e di frequente. Si tratta di un dibattito che tenderà a provocare divisione, nonché uno spostamento di visione, da quella tedesca a quella francese, in seno alle istituzioni europee (riportando con ogni probabilità il settore nucleare nelle priorità di investimento nei prossimi anni, se non mesi). A questa dinamica si intreccia il crescente distacco (asimmetrico e tutto ancora da studiare) fra paesi europei e asiatici, in particolare la Cina.

I dazi pensati dall’Unione Europea per limitare le importazioni ad alto contenuto di CO2 non produrranno una effettiva riduzione della produzione di gas serra, ma limiteranno gli scambi dall’Asia, specialmente dalla Cina, verso l’Europa. Questa previsione di alcuni analisti mette in risalto il fatto che la dipendenza europea dalle catene di approvvigionamento globali deve essere ridotta. Ciò implica che dovrebbe aumentare la produzione in casa, cioè si dovrebbe stimolare una reindustrializzazione di alcuni settori in Europa, in un momento in cui un paese come la Germania è di fatto a rischio di dover ridimensionare le proprie capacità produttive a causa delle necessità energetiche. Inutile dire che l’industria tedesca è fortemente integrata alle economie di confine, inclusa l’Italia e che il problema non è assolutamente solo tedesco ma europeo. Le tensioni relative agli approvvigionamenti energetici si accumulano mentre i governi tornano a investire nell’industria bellica e le istituzioni europee dichiarano ormai apertamente di voler vedere più difesa nei portafogli dell’Unione.

In questo contesto, con le guerre in Medio Oriente e in Ucraina e tensioni crescenti in altre parti del mondo, le grandi compagnie petrolifere cambiano strategia in nome del mercato. Sotto le pressioni dei grandi investitori, infatti, l’inglese BP considera un cambio di marcia sui progetti e gli investimenti green sullo stile della Shell. Quest’ultima, nel 2023, ha abbandonato i suoi piani che avevano come obiettivo la riduzione di produzione di petrolio del 20% entro il 2030. I profitti record che hanno raggiunto i 40 miliardi di dollari nel 2022 hanno portato gli azionisti a riconsiderare questa strategia. La conseguenza è stata una progressiva uscita dai progetti green. Ora i grandi investitori di BP, fra cui Bluebell Capital, vorrebbero vedere lo stesso cambiamento e assicurarsi più vendite sui mercati dove, ad esempio, la Russia non arriva più. In altre parole, sono “i mercati” a decidere il futuro del pianeta. Le dinamiche londinesi, tuttavia, raccontano solo una parte delle tensioni che aumentano in ambito energetico. Queste tensioni si intrecciano in modo sempre più preoccupante con considerazioni geopolitiche. Qui di seguito sono elencanti una serie (molto limitata) di fatti, piccoli e grandi, che danno l’idea di come una guerra economica sull’energia sia in atto e di come si possa trasformare in guerra aperta in varie parti del mondo, scenario in cui gli sforzi per costruire un futuro più pulito e sicuro verranno accantonati (almeno per un periodo).

La Russia ha vietato le esportazioni di benzina per sei mesi a causa delle esplosioni nella raffineria di Novgorod. Il fine è di assicurare i rifornimenti interni prima di pensare a quelli esterni. Intanto, il petrolio russo raggiunge il Venezuela, colpito dalle sanzioni imposte da Washington. Il Venezuela ha seri problemi nell’ambito delle esportazioni. Una ventina di cargo sono fermi fuori dai suoi porti in attesa di caricare petrolio. La causa dovrebbe risalire all’assenza delle sostanze diluenti necessarie a trattare il petrolio prima di essere inserito nelle navi. Ciò rappresenta un altro segno delle dipendenze dalle catene di approvvigionamento che a volte possono essere trasformate in armi (economiche). Una raffineria distrutta dall’ISIS nel nord dell’Iraq sta riprendendo le sue attività dopo quasi dieci anni di chiusura, indicando un potenziale ripristino del ruolo della regione nel mercato degli idrocarburi.

Il mercato dei carburanti per aerei è fortemente in crescita. Negli Usa continua a salire, avvicinandosi sempre di più ai livelli pre-pandemia del 2019. Si tratta di un mercato in aumento anche in Cina e soprattutto in India, che è diventata la terza per consumi dopo Usa e Cina. Nel 2023, l’India ha acquistato 1200 aerei di linea, che fanno prevedere ulteriori aumenti. Un mercato in incessante crescita, specialmente in Asia, che fa gola ai grandi esportatori, Usa, Russia e Arabia Saudita. Fra i grandi produttori di carburante ci sono le grandi raffinerie statunitensi dove si registra un abbassamento dei prezzi. Riguardo ai prezzi, si è registrato anche un calo nel mercato del gas naturale americano che è ai minimi storici. I maggiori hedge funds hanno abbandonato gli investimenti nei futures del settore malgrado l’export di gas dagli Usa sia in aumento e i vuoti di mercato creati con le sanzioni all’Iran e alla Russia sembrano facilmente colmabili, almeno in questo momento. L’Iran e il Pakistan hanno firmato l’accordo per sviluppare il gasdotto che porterà il gas iraniano fino al porto pachistano di Gwadar. Questo è il punto finale del corridoio cino-pachistano, una delle arterie della cintura economica cinese. Il progetto aumenta le tensioni nella regione e pone una domanda sulla collaborazione fra Iran, Pakistan e Cina, che molti in occidente non vedono di buon occhio. Il rivale regionale dell’Iran nel mercato del gas, Qatar Energy, ha varato il primo di una nuova serie di tanker per espandere la flotta ed esportare più gas naturale. La Qatar Energy lo ha battezzato con il nome di Rex Tillerson, in omaggio all’ex Segretario di Stato degli Usa sotto il presidente Trump. Una scelta simbolica, legata a una dimensione politica americana ben precisa, giustificata dal fatto che Tillerson avrebbe scongiurato un attacco saudita contro il Qatar. Questo elenco di fatti degli ultimi giorni mostra una serie di punti di tensione convergenti sotto un’unica sfera, cioè quella della riconfigurazione dei mercati energetici. Suggeriscono che siamo vicini al ridimensionamento (o fallimento?) delle politiche green, che la fase di guerra economica non si concluderà presto. Che aumenta il rischio di guerra aperta.

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