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Il fallimento di Evergrande e il capitalismo cinese

September 9, 2023

Economia

– di Paolo Balmas –

Lo scorso 17 agosto uno dei colossi cinesi dell’edilizia ha richiesto alle autorità di New York di essere registrata sotto il capitolo 15 della legge sulla bancarotta, che permette di rinegoziare il debito con le banche e di proteggere i propri assets su suolo statunitense. La Evergrande era stata già nel mirino dei mass-media di tutto il mondo nel luglio 2022 quando aveva bloccato gli scambi in borsa dopo un tracollo del proprio valore a fine 2021 e una perdita di un ulteriore 27% nella prima metà del 2022. A dicembre del 2022 il suo debito era pari a circa 84 miliardi di dollari. Sebbene la maggior parte di questo debito fosse denominato in yuan, oltre il 21% era in dollari. Con l’apprezzamento del dollaro la compagnia ha perso circa 10 miliardi di yuan (1,37 miliardi di dollari) a causa del tasso di cambio. Un quarto del debito totale era a breve termine e a metà del 2023 è stata diagnosticata l’impossibilità di ripagare.

Evergrande non è l’unica impresa cinese del settore edile a soffrire il peso di un debito cresciuto esponenzialmente negli ultimi anni. Fra queste società, quelle quotate alla borsa di New York rischiano un destino simile. Country Garden, ad esempio, ha stimato una potenziale perdita di 7 miliardi di dollari nella prima metà del 2023, mettendo così a rischio la sua abilità di ripagare il debito. Le interpretazioni di ciò che sta accadendo in Cina sono varie. Si parla di una bolla cresciuta a partire dal 2016 specialmente a causa della prevendita di proprietà commerciali e a uso privato. Sarebbe un modello di business fondato sul turnover che avrebbe dovuto limitare la dipendenza dal debito, ma che invece si è inceppato a causa del comportamento delle grandi società. Tuttavia, si continua a ignorare il ruolo del settore edile nei meccanismi di creazione del credito, cioè di denaro.

Mentre il mercato edile cinese, che ha sostenuto una buona porzione dell’economia reale negli ultimi 40 anni, andava verso una sorta di maturità e saturazione, di sostanziale rallentamento, le grandi imprese edili hanno continuato a tenere ritmi serrati. Ciò ha dato vita al fenomeno di quartieri di grandi città con palazzi semi deserti, superando lo stesso fenomeno che si è presentato in Europa e in America di abitazioni e uffici invenduti e rimasti vuoti. Le banche non hanno potuto giocare liberamente con i rapporti fra mutuo e valore della casa, e fra rate mensili e stipendi degli acquirenti per influenzare i prezzi delle case (prezzi più alti, più creazione di credito, più assets) come accade in Europa e America alla vigilia delle bolle finanziarie legate al mercato dei mutui. Quindi hanno puntato sulla quantità di immobili. In altre parole, l’attuale crisi del settore edile cinese, seppur con qualche differenza, mette a nudo i meccanismi più perversi del capitalismo, quelli che inevitabilmente portano alle crisi finanziarie. Per questo motivo tutti attendono il crollo dell’economia cinese.

Purtroppo per coloro che sono sicuri di tale crollo, la Cina ha dimostrato già in passato di conoscere le politiche monetarie e i meccanismi bancari per evitare, o almeno risolvere in breve tempo, le crisi finanziarie. Negli Usa le politiche del 2008 lanciate dall’ex guida della Federal Reserve, Ben Bernanke, hanno dimostrato che è possibile arginare gli effetti finanziari delle crisi in tempi relativamente brevi. Le stesse potenzialità, tuttavia, non sono state sfruttate né in Europa né in Giappone. Nulla suggerisce però che in Cina non verranno utilizzati tali espedienti, oltre al fatto che la crisi dovrebbe espandersi prima al settore bancario, fino al punto di provocare una riduzione talmente consistente della produzione di credito da ripercuotersi su tutte le altre attività economiche.

In ogni caso il settore edile cinese è messo male. Il rapporto fra debito e assets dell’intero settore è di circa l’80%. In confronto ad altri paesi sembra un rapporto tragico. Il Giappone è il paese che si avvicina di più con il 70%, segue il Regno Unito con il 42%, la Francia con il 41%, la Germania con il 24% e gli Usa con il 22% (dati precisi sull’Italia purtroppo non sono stati trovati). Ciò che sembra non funzionare nelle analisi sulla Cina, in generale, è il confronto diretto con le altre economie. Sebbene i meccanismi fondamentali del capitalismo fondato sul debito bancario siano gli stessi, per comprendere la Cina bisognerebbe prima di tutto capire il cambiamento epocale che stanno vivendo oggi la sua economia e la sua società, associato ai cambiamenti in ambito internazionale (che del resto sono strettamente legati). Non si può comprendere la Cina sull’esperienza pregressa di singole economie nordatlantiche. Il rischio è sempre lo stesso, cioè non capire e arrivare tardi.

– Newsletter Transatlantico N. 24-2023

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