The_Pentagon_January_2008

Pentagono e guerra in Ucraina

July 22, 2023

Strategia

CONTINUA IL DIBATTITO SUL NUCLEARE E SULLA DIPLOMAZIA —

Alla fine di giugno, abbiamo riportato il dibattito provocato dall’articolo di Sergei Karaganov (Transatlantico n. 18-2023), in cui il membro del Consiglio di politica estera e difesa russo ha affermato la necessità di ristabilire la deterrenza attraverso l’utilizzo di un numero limitato di bombe nucleari “per riportare alla ragione coloro che hanno perso la testa”, riferendosi all’Occidente che userebbe la guerra in Ucraina per “mantenere il proprio dominio globale”. È diventato subito evidente che questa tesi non è sostenuta né dal Cremlino né da altri analisti autorevoli all’interno della Russia, almeno in base a una serie di dichiarazioni pubbliche in cui lo stesso Putin e poi numerosi altri esponenti importanti hanno negato la necessità di utilizzare le armi atomiche e anche criticato l’autore dell’articolo per la sua proposta provocatoria.

Dopo settimane di dibattito anche nel mondo occidentale, Karaganov è tornato a parlare, spiegando che il suo obiettivo era utilizzare questa minaccia per far ragionare le élite occidentali e, di conseguenza, portarle a fermare le loro politiche aggressive. “Il mio scopo era di avviare una discussione e portarla alla luce affinché questo fatto da solo rafforzasse la nostra deterrenza nucleare. E ci sono riuscito…”

Ha poi espresso alcuni altri punti che sono utili per capire come ragionano gli esponenti della linea dura in Russia. Ad esempio, ha detto che in nessuna circostanza la Russia dovrebbe utilizzare le armi nucleari in Ucraina, poiché si tratta dello stesso popolo, sebbene gli ucraini siano stati “illusi dalla propaganda nazionalista”. Ha spiegato che la Russia deve spostare il suo “centro di gravità” verso gli Urali e la Siberia, il centro del proprio potere e benessere, e non aspettarsi nulla dall’Occidente.

Infine, Karaganov ha dato una visione massimalista degli obiettivi russi del conflitto, dicendo che sarebbe pericoloso lasciare una qualsiasi forma di stato sul territorio ucraino pieno di armi e con un’atteggiamento antirusso; per lui si tratta di un esito inammissibile, e quindi l’obiettivo originale di demilitarizzare l’Ucraina rimane.

Negli Stati Uniti si pensa, però, che il Cremlino potrebbe essere disponibile a trovare una via d’uscita, e dunque cresce il dibattito su come avviare dei negoziati per fermare il conflitto nei prossimi mesi. Uno dei luoghi preferiti per questa discussione è la rivista Foreign Affairs, pubblicata dal Council on Foreign Relations (CFR), un think-tank di primo livello nel mondo istituzionale transatlantico. Ci sono stati diversi articoli negli ultimi mesi affermando la necessità di porre le basi per una soluzione negoziata: degno di nota è quello di Charles Kupchan e Richard Haas dello scorso 13 aprile, in cui si propone “un piano per passare dal campo di battaglia al tavolo dei negoziati”. La tesi centrale è che diventa sempre più probabile una situazione di stallo, anche dopo la controffensiva ora in corso, e quindi l’obiettivo per gli Stati Uniti dovrebbe essere quello di proporre un cessate-il-fuoco in cui sia la Russia sia l’Ucraina si ritirino dalla prima linea, creando di fatto una zona demilitarizzata.

Questo intervento è stato oggetto di rinnovata attenzione nelle ultime settimane poiché ai primi di luglio, NBC News ha rivelato che sono in corso delle discussioni segrete tra personaggi vicini al Cremlino e un gruppo di ex funzionari della sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Tra questi si cita proprio Charles Kupchan, fellow del CFR ed ex assistente della Casa Bianca e funzionario del National Security Council durante il mandato di Barack Obama. Entrambi i governi hanno negato che le trattative avvengano a nome loro; è chiaro tuttavia che i partecipanti tengono aggiornati i rispettivi governi; infatti, il Ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov avrebbe incontrato il gruppo di persona a New York nel mese di aprile.

Un altro articolo su Foreign Affairs, più recente, è stato scritto da Samuel Charap della RAND Corporation, anch’egli ex funzionario del Dipartimento di Stato durante l’amministrazione Obama. Charap ha provocato un ampio dibattito con la sua previsione che nessuna delle due parti potrà ottenere una vittoria militare decisiva, ed entrambe manterranno delle capacità militari dopo la fine della fase calda della guerra. Dunque ci troveremo di fronte a un confronto a lungo termine, che potrebbe produrre “sofferenza umana immensa, difficoltà economiche ed instabilità internazionale”, condizioni che non cambierebbero con la continuazione del conflitto.

Di conseguenza, Charap chiede che gli Stati Uniti esercitino la propria influenza per spingere le parti verso una conclusione, almeno un armistizio che fermerebbe lo spargimento di sangue, visto che un trattato di pace vero e proprio sembra impossibile nella situazione attuale.

Charap ha ricevuto varie critiche, naturalmente, da parte di chi vede la diplomazia come una resa di fatto nei confronti di Vladimir Putin. La sua risposta è la seguente: “Iniziare i colloqui non richiede di fermare la lotta. Condurre negoziati non è l’opposto di applicare pressioni coercitive. Infatti, i negoziati sono il mezzo attraverso il quale gli Stati possono trasformare quelle pressioni in una leva per raggiungere i propri obiettivi”.

Il crescente dibattito nella comunità di esperti politici si aggiunge alle pressioni che provengono dal mondo militare da molti mesi, descritte nell’articolo riprodotto qui sotto, pubblicato nel numero 194 della Rivista Aspenia appena uscito.

Pentagono e guerra in Ucraina

 di Andrew Spannaus

Il dipartimento della Difesa americano non è un monolite a sostegno della politica militare del paese e diversi suoi esponenti hanno espresso in passato molte cautele sugli interventi degli Stati Uniti nel mondo. L’appoggio all’Ucraina non fa eccezione, con voci che hanno spinto, nei mesi passati, per una linea finalizzata a una soluzione diploma­tica del conflitto. Resta da vedere se queste posizioni riusciranno a influenzare la Casa Bianca oppure se prevarrà la tendenza ad au­mentare le forniture e il coinvolgimento di Washington nella guerra contro la Russia.

L’edificio del dipartimento della Difesa americano, il Pentagono, è visto in tutto il mondo come il simbolo della politica militare degli Stati Uniti. Una politica contestata e discussa in modo particolare negli ultimi due decenni, cioè da quando, nei primi anni Duemila, la fazione neoconservatrice ha preso il sopravvento a Washington.

Si tende spesso a pensare che le forze armate siano naturalmente a favore degli interventi militari, la punta del famoso “complesso milita­re-industriale” di cui ammonì il presidente Dwight Eisenhower nel suo discorso d’ad­dio dalla Casa Bianca del gennaio 1961.

Tuttavia, analizzare la politica estera statunitense oggi richiede una comprensio­ne più ampia del funzionamento delle istituzioni americane e della comunità della sicurezza nazionale, arrivando fino alle ultime decisioni del presidente. Oltre alla Casa Bianca e il suo Consiglio per la sicurezza nazionale, ci sono tre gambe portanti del processo: la diplomazia, cioè la macchina del dipartimento di Stato; la comunità d’in­telligence, fatta di numerose agenzie che interagiscono anche con altri elementi delle istituzioni; e il dipartimento della Difesa, appunto, che rappresenta tutto l’apparato militare del paese.

È interessante constatare come, non di rado, sia quest’ultimo a sollevare dubbi in merito agli interventi militari, quando invece altri – il dipartimento di Stato e la CIA, principalmente – diventano fautori di azioni di guerra in giro per il mondo. Non si può farne una regola generale, certo, ma ci sono vari esempi di tentativi del Pentagono di moderare la posizione adottata dalle altre due gambe: dalla resistenza alla spinta per la guerra in Iraq del 2003, quando i militari contestavano le affermazioni dell’intelli­gence in merito alle presunte armi di distruzione di massa, ai tentativi di stabilire un dialogo diretto con la Libia per indebolire la spinta verso la guerra da parte di Hillary Clinton nel 2011.

A volte non è facile vedere i distinguo in pubblico – i militari non contestano apertamente il Comandante in capo – ma a guardare bene, i segnali di questa azione sono evidenti, in modo particolare in questo periodo. È, infatti, ormai risaputo che alcuni settori del mondo della difesa sono i più scettici verso gli obiettivi molto ambi­ziosi di Kyiv nella guerra con Mosca, come la ripresa della Crimea e gli attacchi sul suolo russo. Si tratta di dubbi ormai espressi apertamente, principalmente dal Capo di Stato maggiore congiunto, il generale Mark Milley; tuttavia, i segnali di disagio con la politica della Casa Bianca sono stati visibili fin dall’inizio, sebbene spesso espressi solo in modo indiretto.

LA SCELTA, NON SCONTATA, DI BIDEN. Per inquadrare le voci a favore della diplo­mazia che provengono dal mondo militare nell’ultimo anno occorre tornare al 2021, quando l’attuale amministrazione presidenziale era appena entrata in carica. Fu nei suoi primi mesi allo Studio ovale che Joe Biden decise di cercare un miglioramento nei rapporti con Vladimir Putin, per non arrendersi alla tendenza verso il consolidamento di una situazione di muro contro muro con Mosca e quindi perdere l’occasione di col­laborare su alcuni punti di interesse comune. Naturalmente, con un occhio alla possi­bilità di indebolire in qualche misura il rapporto sempre più stretto tra Russia e Cina.

Si trattava, tra l’altro, del terzo presidente di fila che aveva deciso di tentare que­sta strada. Al suo arrivo alla Casa Bianca, Barack Obama aveva puntato a un “reset” dei rapporti con Mosca, e aveva trovato il modo di usufruire dell’aiuto di Putin in al­cuni momenti cruciali, per esempio con l’intesa sulla rimozione delle armi chimiche dalla Siria nel 2013, e anche nel raggiungimento dell’accordo nucleare con l’Iran. Questo processo fu interrotto, in parte, dapprima con il violento cambio di governo a Kyiv nel 2014, e poi, in modo più netto, quando Mosca fu accusata di interferire pesan­temente nelle elezioni americane del 2016. Negli ultimi mesi del suo mandato era ri­masto poco dei tentativi di collaborazione iniziati da Obama.

Ironicamente, il percorso seguito da Donald Trump non è stato così diverso in termini sostanziali. Tutti si ricordano le sue aperture pubbliche a Putin, che gli hanno procurato non solo una serie di critiche e indagini, ma anche la decisa opposizione di buona parte delle istituzioni e dei media americani. I due presidenti si parlarono di­verse volte, ma alla fine anche Trump fallì nel suo intento, in quanto i rapporti tra i due paesi arrivarono a toccare il punto più basso degli anni pre-guerra – a detta dei russi stessi – e fu proprio Trump ad aumentare l’invio di armi a Kyiv, seppur dopo al­cune resistenze iniziali.

Biden decise comunque di riprovarci, scegliendo anche in questo caso di seguire in parte le orme di Trump, pur senza mai ammetterlo. Il culmine arrivò a giugno 2021 con l’incontro tra i due presidenti a Ginevra, quando Biden offrì a Putin un “dialogo tra grandi potenze”, accordando al presidente russo il rispetto che cercava. In più i due paesi stabilirono una serie di gruppi di lavoro sulla stabilità strategica, affrontando le situazioni in Iran, in Siria e nella Corea del Nord. Si arrivò perfino a creare un Cyber Working Group congiunto per combattere i criminali sul web, e presto la Russia arre­stò numerosi membri del più temuto gruppo di ransomware al mondo, REvil.

Ovviamente i rapporti cominciarono a peggiorare pochi mesi dopo, con l’au­mento delle truppe russe sul confine ucraino e la visita dei vertici ucraini a Washing­ton per firmare accordi formali con obiettivi che a Mosca furono visti come inaccet­tabili, a iniziare dalla restituzione della Crimea e dall’entrata di Kyiv nella NATO. Il resto è storia, potremmo dire, ma è importante ricordare questo percorso diplomatico quando si valuta la risposta dell’amministrazione Biden all’invasione russa dell’U­craina nel febbraio 2022. La disponibilità del presidente americano nell’adottare una linea dura, non preferendo un percorso diplomatico con il Cremlino, non fu affatto scontata in partenza.

IL TENTATIVO DEL CAMPO REALISTA. Alcune settimane dopo l’inizio del conflitto, Biden si lasciò scappare una dichiarazione forte nei confronti di Putin, affermando durante un discorso a Varsavia, il 26 marzo, che “quest’uomo non può rimanere al potere”. Seppure l’affermazione non fosse inclusa nel suo intervento scritto, le parole riflettevano la scelta maturata da Biden e il fatto che all’interno dell’amministrazione si escludeva la possibilità di parlare direttamente con il presidente russo. Questa po­sizione sarebbe stata confermata un mese dopo quando, a seguito dei fatti di Bucha e con l’aiuto dell’allora primo ministro inglese Boris Johnson, il presidente ucraino Zelensky fu convinto a non andare avanti con la bozza di accordo diplomatico stilato con i russi nell’aprile 2022.

Fu in questo periodo cruciale che cominciarono a comparire dei commenti sor­prendenti di un funzionario anonimo, citato sulla rivista Newsweek e intervistato dal giornalista e commentatore William Arkin, ex soldato e analista militare per alcuni dei più importanti giornali americani. Le affermazioni, attribuite a un’analista senior del­la Defense Intelligence Agency, andavano in una direzione diametralmente opposta a quelle di quasi tutti i media e i rappresentanti politici: “Per quanto sia distruttiva la guerra in Ucraina, la Russia sta causando meno danni e uccidendo meno civili di quanto potrebbe,” iniziava. Per poi dire che, pensando che i russi stessero bombardan­do in modo indiscriminato, “non vediamo il conflitto vero”. La conclusione era che Putin “forse è conscio del fatto che deve limitare i danni per poter lasciare una via d’uscita per i negoziati”. Le interviste di questo tipo con funzionari anonimi del mondo della difesa continuarono per mesi, cercando di ricondurre le depredazioni russe alle normali, seppur tragiche, dinamiche della guerra, con l’obiettivo dichiarato di favorire la posta diplomatica.

Dunque, alla Defense Intelligence Agency c’erano delle talpe, dei simpatizzanti di Putin? È più realistico riconoscere che qualcuno in quell’ambito, preoccupato per una possibile escalation, voleva contrastare la narrazione comune e sostenere una linea di Realpolitik nei confronti della Russia. E con il passare dei mesi è diventato evidente che non si trattava solo di qualche voce isolata o deviata; i dubbi provenivano anche dal livello più alto della catena di comando.

È il caso del già citato generale Milley: a novembre del 2022 uscirono sui giorna­li degli articoli su come, nelle riunioni interne all’amministrazione, il Capo di Stato maggiore congiunto sostenesse che gli ucraini erano arrivati al punto massimo della ripresa del territorio prima dell’inizio dell’inverno, e che quindi avrebbero dovuto co­minciare a sedersi al tavolo dei negoziati per consolidare quanto conquistato sul ter­reno. Milley parlava di una “finestra” per le trattative di pace, il che provocava non poche preoccupazioni sia tra gli altri consiglieri del presidente sia a Kyiv.

Ma c’è un dato importante da rilevare in questo caso: è difficile pensare che Mil­ley abbia reso pubblico il suo dissenso senza almeno la tacita approvazione della Casa Bianca. Siccome aveva espresso le sue posizioni in discorsi pubblici e c’erano stati numerosi articoli in merito anche su giornali quali il New York Times – i cui giorna­listi hanno contatti costanti con i funzionari del governo – è evidente che si era lan­ciato una sorta di dibattito pubblico, un tentativo di far crescere la discussione sulla necessità almeno di considerare l’opzione diplomatica. Questo tentativo, però, non ha fatto molta strada: il campo realista ha continuato a insistere che l’unica via d’uscita dalla guerra è quella dei negoziati, ma a livello politico è prevalsa la volontà di soste­nere Kyiv per poter riprendere più territorio possibile, con la fornitura di armi man mano più sofisticate.

LA PREOCCUPAZIONE PER UNA GUERRA LUNGA. Il successivo rilancio dal mon­do della difesa è arrivato a gennaio di quest’anno, con il rapporto della RAND Corpo­ration intitolato “Evitare una guerra lunga: la politica americana e la traiettoria del conflitto Russia-Ucraina”. La RAND ha una lunga storia come think tank finanziato dal dipartimento della Difesa, con progetti lungimiranti, ma anche controversi nel campo dell’ingegneria sociale e dei giochi di guerra.

Lo studio di gennaio è stato molto esplicito, affermando che gli interessi america­ni non sono necessariamente uguali a quelli ucraini, e che quindi gli Stati Uniti devo­no riconoscere il bisogno di evitare una guerra lunga, capace di portare con sé nume­rosi rischi e svantaggi. Si ammonisce, inoltre, contro l’idea di sminuire il rischio dell’uso delle bombe nucleari e si chiede di costringere Kyiv a iniziare a trattare, pen­sando pure a come ricucire con la Russia dopo il conflitto, ponendo condizioni per la rimozione delle sanzioni in futuro.

Lo studio della RAND è stato in gran parte ignorato dalla grande stampa, indican­do in questo caso una decisa volontà di evitare una discussione aperta delle relative proposte. Infatti, le dichiarazioni pubbliche dell’amministrazione americana ormai indicano che si appoggerà Kyiv “per quanto necessario”, mentre rimangono dietro le quinte le preoccupazioni di un allargamento del conflitto. A Washington si spera an­cora nella fine della guerra entro il 2023, ma eventuali pressioni su Zelensky a sedersi al tavolo dei negoziati arriveranno solo dopo aver valutato il successo, o meno, dei tentativi di riprendere territori con la controffensiva estiva, e quindi di poter approfit­tare di un momento di debolezza della Russia.

La rivelazione di numerosi documenti interni del Pentagono, pubblicati su una piattaforma di social media nel mese di aprile, ha reso pubbliche molte informazioni riservate in relazione alla guerra in Ucraina. Tralasciando le teorie complottistiche su chi avrebbe potuto facilitare questa fuga di notizie, rimane comunque un quadro in­teressante in merito al coinvolgimento operativo degli Stati Uniti nel conflitto, anche in relazione a valutazioni spesso meno rosee di quelle espresse pubblicamente. Il go­verno americano si è mosso subito per limitare i danni, ma è indubbio che le rivelazio­ni abbiano rafforzato, almeno in termini relativi, chi esprime una linea scettica verso la politica della Casa Bianca.

Come detto sopra, bisogna stare attenti a non generalizzare, definendo i militari nel loro insieme come più cauti del dipartimento di Stato e della CIA. Ci sono molti nel mondo della Difesa che non hanno dubbi sulla necessità di sostenere l’Ucraina al massimo livello possibile. Lo stesso Segretario alla Difesa, Lloyd Austin, evita di asso­ciarsi pubblicamente a voci di dissenso, preferendo offrire i propri consigli e operare dietro le quinte. Ma è evidente che, da tempo, esiste una fazione importante nel mondo della Difesa preoccupata di come la leadership politica persegue obiettivi strategici senza contemplarne tutti i rischi; e sarebbe difficile ignorare queste critiche, conside­rando l’esito degli interventi militari degli ultimi due decenni.

Ben Hodges, ex comandante dell’esercito americano in Europa, non è tra chi chiede la diplomazia. Ha recentemente dichiarato che l’amministrazione non ricono­sce l’importanza di sostenere gli obiettivi più ambiziosi, come la ripresa della Crimea. Parlando a un giornalista di The Daily Beast ha detto: “Lo so perché ho parlato con persone di alto grado nella Difesa e altrove… non lo capiscono proprio”. Andando avanti si vedrà se questa “incapacità di capire” da parte di alcuni del Pentagono sarà in grado, o meno, di spingere la Casa Bianca a cercare una soluzione diplomatica alla guerra, oppure se prevarrà la linea di continuare ad aumentare le forniture e il coin­volgimento degli Stati Uniti per ottenere una vittoria militare contro la Russia.

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