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Le critiche europee agli Usa, tra guerra e economia

December 1, 2022

Economia, Notizie

– di Andrew Spannaus –

Aumentano in Europa le critiche agli Stati Uniti per gli strumenti utilizzati da Washington in merito alla guerra in Ucraina e per stimolare la propria economia. Sulla stampa, nei commenti pubblici e nelle discussioni private, si esprime un netto disagio rispetto alle conseguenze del ruolo dominante degli Stati Uniti nelle forniture militari, insieme agli effetti delle nuove politiche industriali di Washington che potrebbero danneggiare fortemente alcuni settori economici europei, a partire dall’economia “verde”. 
La sintesi è stata data da un articolo del sito Politico.eu dello scorso 24 settembre, sotto il titolo: “L’Europa accusa gli USA di trarre profitto dalla guerra”. I giornalisti partono con la denuncia (d’obbligo) di Vladimir Putin, affermando che il suo intento di provocare fratture in Occidente comincia a dare i suoi frutti. E poi presentano una tesi che in effetti riflette il crescente malumore per l’attivismo americano in questo periodo: “Funzionari europei di spicco sono furiosi con l’amministrazione di Joe Biden e ora accusano gli americani di guadagnare una fortuna dalla guerra, mentre i paesi dell’Ue soffrono… I commenti esplosivi – sostenuti in pubblico e in privato da funzionari, diplomatici e ministri – seguono la crescente rabbia in Europa in merito ai sussidi americani che minacciano di rovinare l’industria europea”.
L’articolo presenta citazioni di figure istituzionali come il presidente francese Emmanuel Macron e il ministro dell’economia tedesco Robert Habeck, e anche di rappresentanti di think-tank e istituzioni diplomatiche. Le preoccupazioni nascerebbero dalla paura che, la disponibilità del governo americano ad intervenire fortemente per finanziare le forniture militari e anche le tecnologie verdi, possa provocare degli squilibri rispetto alle normali dinamiche di mercato. 
 
Le critiche hanno sicuramente del merito, se si considera la recente svolta post-globale nella politica americana: come scriviamo da tempo, gli Stati Uniti hanno deciso che, di fronte all’indebolimento della propria economia reale, alla frammentazione delle filiere industriali dovuta alla ricerca dei bassi costi, e da ultimo all’imperativo strategico di vincere la sfida tecnologica con la Cina, lo Stato deve muoversi in modo mirato per ristabilire la forza del paese al proprio interno e di conseguenza anche a livello internazionale. Questo comporta decisioni poco coerenti con la visione del modello del “libero scambio”, tra l’altro promosso con il nome del “Washington Consensus” per decenni. 
Vista in quest’ottica, il comportamento dell’America è incompatibile con quel che ha predicato per anni, e l’intervento pubblico può certamente rappresentare un vantaggio per gli Usa rispetto ad altre economie che decidessero di continuare a limitare il ruolo dello stato, oppure che non hanno le risorse per interventi simili. 
 
Ci sono due considerazioni iniziali da fare. La prima è che questo cambiamento era evidente da tempo, per chi lo voleva vedere (o leggere la nostra newsletter). Era necessario – ma compreso lentamente dalle istituzioni politiche – per contrastare il declino provocato da oltre 40 anni di politiche “post-industriali”. E’ poi diventato praticamente inevitabile dall’inizio della “rivolta degli elettori” che si è espressa nel populismo politico che ha preso di mira gli effetti della globalizzazione e della finanziarizzazione dell’economia. Dunque esserne sorpresi oggi riflette semplicemente l’incapacità di capire il fallimento del modello precedente e la conseguente necessità per tutta l’occidente di voltare pagina. 
La seconda considerazione riguarda l’ironia implicita nella critica europea alla spesa pubblica. Infatti tutto l’impianto economico dell’Unione europea si fonda sull’idea che i conti devono essere in ordine, e che i paesi incapaci di tenere sotto controllo il deficit e il debito pubblico fanno male a se stessi e mettono a rischio il proprio futuro e quello dell’Unione intera. 
Ora, è molto strano sentire critiche all’America perché con la propria spesa pubblica riesce a far correre l’economia. Per essere coerenti, i funzionari di Bruxelles dovrebbero dirci che un paese che fa così – che tra l’altro ha un debito pubblico al 125% del Pil e un deficit al 4,5% del Pil (dopo due anni ben oltre il 10%) – rischia solo di danneggiare se stesso. Eppure non è questo l’approccio; si sente dire che non è giusto perché i sussidi per le tecnologie verdi e i settori tecnologici aiuteranno l’America a danno dell’Europa.
Evidentemente non si crede ai modelli che vengono utilizzati; oppure si potrebbe dire che quei principi non si applicano allo stesso modo nel caso della superpotenza americana (argomento molto comune). Ma la realtà è che quella superpotenza è diventata tale – come lo hanno fatto anche le grandi economie europee – con un misto di stato e mercato privato, riconoscendo soprattutto la necessità di promuovere l’innovazione e il progresso industriale. E che spesso le regole europee – in parte sospese di fronte alla realtà della pandemia – sono più un’arma politica per favorire una maggiore centralizzazione sovranazionale che un strumento economico per promuovere il benessere dei cittadini dell’Unione. 
L’obiettivo della maggiore integrazione può essere certamente legittimo per chi spera di utilizzare l’Europa come veicolo per assicurare il maggiore peso del vecchio continente in un mondo fatto di grandi potenze in una fase di competizione intensa. Ma questo non giustifica la decisione di ignorare la necessità di uscire dalle illusioni della globalizzazione e della “finanziarizzazione” degli ultimi decenni. Infatti anche l’Europa si muove gradualmente verso politiche industriali e maggiore realismo, per esempio rispetto alla Cina; ma sembra ancora lenta ad adattarsi alla nuova realtà.
 
Il punto è che l’America non utilizza l’intervento pubblico per danneggiare l’Europa, ma principalmente per necessità interne e per mantenere il proprio ruolo mondiale nei decenni a venire. Che questo possa avere effetti sfavorevoli per chi crede in alcuni modelli neoliberali è evidente, e quindi diventa solo più urgente per altri ripristinare strumenti propri che riescano a promuovere la crescita incisiva e duratura.
D’altronde, mentre una maggiore franchezza nella discussione degli obiettivi della strategia di Washington in Ucraina sarebbe sicuramente utile, lamentarsi di 18 miliardi di dollari di aiuti militari come volàno dell’economia americana – o anche della cifra più grande di 53 miliardi che comprende altre voci, molte delle quali con solo effetti interni e non internazionali – potrebbe fare quasi ridere dopo che il Congresso americano ha speso oltre 6 mila miliardi in meno di tre anni per rispondere alla crisi pandemica; per non parlare dei recenti pacchetti di centinaia di miliardi per promuovere la produzione dei semiconduttori e di altre tecnologie fondamentali per il futuro. D’altra parte c’è un fondo di verità: la produzione industriale che la guerra richiede, rappresenta uno stimolo più solido di maggiori spese per ristoranti e cinema. Come si è visto in passato nella Seconda Guerra Mondiale, una piena mobilitazione industriale intorno alla guerra – certamente non in atto al momento – può dare un grande impulso all’economia. 
 
Anche i guadagni sul gas naturale liquido sono da vedere in prospettiva. Il prezzo del gas americano esportato è decisamente alto, ma a parte la necessità di capire quanto di questo guadagno va agli intermediari, anche qui si tratta di cifre relativamente limitate se viste a livello macroeconomico; ma senz’altro fanno capire l’importanza di istituzioni pubbliche in grado di reagire in modo efficace alla realtà internazionale di oggi, senza vincolarsi a illusioni non ancora abbandonate degli ultimi decenni. In alcuni settori – come l’energia, per tutta evidenza – il cambiamento richiederà del tempo. Ma meglio cominciare invece di lamentarsi del fatto che gli altri corrono troppo velocemente.

– Newsletter Transatlantico N. 37-2022

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