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Wuhan virology

Fatti, non complotti: le origini del Covid-19

May 18, 2021

Politica

(free) – di Andrew Spannaus –

A quasi un anno e mezzo dalle prime manifestazioni del Covid-19, le incertezze sulle origini del virus sono ancora presenti. Le dichiarazioni pubbliche di molti scienziati e della stampa tendono ad escludere la possibilità che il virus sia uscito da un laboratorio, ma a seguito della visita degli esperti dell’Organizzazione mondiale della sanità a Wuhan lo scorso marzo, perfino il Direttore generale dell’Oms Tedros Adhanom Ghebreyesus ha dichiarato che nonostante sembra poco probabile, questa ipotesi merita ulteriori indagini.

Le pressioni in questo senso cominciano a crescere: il 14 maggio un gruppo di 18 biologi di primo piano hanno scritto una lettera alla rivista Science chiedendo un’indagine più approfondita; e il 5 maggio è stata pubblicata una lunga inchiesta sulla rivista Bulletin of Atomic Scientists di Nicholas Wade (ex giornalista di Nature, Science e del New York Times), che presenta in modo organico l’intera vicenda, facendo capire che sulla base dei fatti, sembra più probabile che il virus sia uscito accidentalmente da un laboratorio di virologia a Wuhan, e che le evidenze per l’ipotesi della via naturale – il salto di specie – sono di fatto mancanti.

Ad oggi non ci sono le prove concrete – anche perché le carte degli istituti coinvolti sono state segretate, e le pressioni politiche per mantenere l’ipotesi del fatto naturale sono forti – ma le conseguenze di un’eventuale conferma dell’ipotesi della fuga sarebbero piuttosto importanti. Non si tratta di avallare delle visioni complottistiche, e nemmeno di prestarsi ad una campagna politica anticinese: le colpe si estendono ben oltre Wuhan, e comprendono i più alti livelli dell’establishment scientifico statunitense. Diventa fondamentale invece capire quali errori siano stati commessi in passato, per evitare di commetterli di nuovo in futuro; un’eventualità che diventa sempre più probabile se ci si concentra solo sulla presunta trasmissione naturale, ignorando la mancanza di misure adeguate di sicurezza nei laboratori, e soprattutto il tipo di ricerche che sembrano averci messo nella situazione attuale.

Procediamo con ordine, sulla base dell’inchiesta pubblicata dal Bulletin of Atomic Scientists, che dimostra 1. che le prime smentite erano poco credibili, 2. che le prove della trasmissione naturale mancano ancora oggi, 3. che l’Istituto di Virologia di Wuhan stava sviluppando artificialmente esattamente il tipo di virus che poi si è diffuso, tra l’altro con i finanziamenti del governo americano, e 4. che le condizioni di sicurezza a Wuhan erano decisamente insufficienti.

Ad oggi, circa due settimane dopo la pubblicazione dell’articolo di Wade, non si registrano smentite sui contenuti, ma solo il sostanziale silenzio dei mass media. Come citato sopra nel caso della lettera dei biologi, crescono invece gli appelli a favore di un’indagine più approfondita sulle origini del Covid-19.

La debolezza delle smentite dell’ipotesi della fuga

Il primo punto era chiaro fin dall’inizio agli osservatori più attenti: la fretta di dichiarare subito che ogni ipotesi diversa da quella del salto di specie rappresentasse una forma di complottismo becero avrebbe dovuto destare sospetti. Da una parte questa posizione rifletteva un chiaro condizionamento politico: visto che Donald Trump aveva puntato il dito alla Cina, i media classificarono subito l’accusa come fake news, invece di considerarla sui meriti. In più, sembrava un modo per “vietare il dibattito… e di controllare il discorso pubblico dall’alto” (come scrissi nel mio libro L’America post-globale l’anno scorso). Insomma, nel voler contrastare le esagerazioni di chi propugnava l’idea della creazione intenzionale della pandemia, si buttava il bambino con l’acqua sporca, opponendosi ad una trattazione razionale della possibilità della fuoriuscita accidentale dal laboratorio.

La posizione dei media fu influenzata fin dall’inizio dalle dichiarazioni di alcuni gruppi di scienziati, una pubblicata su Lancet e l’altra su Nature Medicine. La prima, tra l’altro fu organizzata da Peter Daszak, presidente della EcoHealth Alliance di New York, ente che aveva finanziato le ricerche sui coronavirus a Wuhan. Un chiaro conflitto di interesse, non dichiarato.

Uno degli elementi più ripresi dai media fu l’affermazione che un virus manipolato in laboratorio sarebbe stato facilmente riconoscibile. Secondo Wade, la stampa, fidandosi troppo degli scienziati senza avere le competenze per indagare, ha accettato una visione datata, in quanto oggi non è più così: i nuovi metodi non permettono la distinzione dei virus manipolati da quelli formatisi per via naturale.

Mancano le prove della trasmissione naturale

L’ipotesi fatto-naturale ha comunque prevalso nei primi mesi, grazie alla risposta decisa di una parte della comunità scientifica contro le ipotesi “complottistiche”. Il problema, rileva l’articolo di Wade, è che ad oggi, nonostante sia passato oltre un anno, non ci sono evidenze della trasmissione naturale. Cioè, se nel caso di virus passati come la Sars e la Mers ci sono voluti pochi mesi per effettivamente identificare la specie “intermedia” attraverso cui avvenne il salto, nel caso del Sars-CoV-2 (Covid-19) non si è mai trovato l’organismo che ha fatto da tramite con l’uomo.

Su questo punto si registrano altri elementi molto importanti: per passare dai pipistrelli agli esseri umani, il virus avrebbe dovuto fare un viaggio di 1.500 chilometri dalle caverne di Yunnan a Wuhan, senza lasciare traccia di infezione lungo il percorso (i pipistrelli si spostano al massimo di 50 km); e non si sono mai trovati pipistrelli infetti con questo virus specifico trasmesso agli esseri umani. C’è di più: il virus che sta dilagando a livello mondiale è poco infettivo tra i pipistrelli, anche se non si può escludere questa via del tutto. E’ molto adatto invece ad infettare le persone, oppure – fa notare l’articolo – i topi “umanizzati”, cioè quelli manipolati geneticamente per assomigliare agli esseri umani negli esperimenti di laboratorio.

Le ricerche dell’Istituto di Virologia di Wuhan

Sono le ricerche sui coronavirus nel laboratorio di Wuhan che costituiscono il punto di partenza per un’eventuale indagine. La massima esperta cinese sui virus nei pipistrelli, Shi Zheng-li conosciuta come la “Signora dei pipistrelli”, ha impostato insieme ad uno scienziato americano della University of North Carolina una ricerca per “esaminare il potenziale di emergere (cioè la possibilità di infettare gli umani) dei coronavirus dei pipistrelli”. Per fare ciò, nella ricerca si aggiungeva ai virus naturali una proteina spike che rendeva possibile l’infezione nell’uomo.

Perché? L’obiettivo era di cercare di prevedere nuovi scenari per anticipare quanto potrebbe eventualmente avvenire in natura. Si riconoscevano i rischi di manipolare geneticamente i coronavirus per farli penetrare nelle cellule umane, ma si affermava l’importanza di essere preparati per far fronte a nuove epidemie.

Si tratta di una ricerca nel filone “gain-of-function”, cioè il potenziamento del funzionamento, che in questo caso puntava a rendere i virus pericolosi per l’uomo. Per un certo periodo questi metodi erano soggetti ad una moratoria dentro gli Stati Uniti: fino al 2017 era vietato aumentare la patogenicità dell’influenza, della Mers o della Sars. Il motivo non è difficile da capire: da tempo succede piuttosto spesso – quasi una volta all’anno – che i virus trattati dentro i laboratori finiscono per generare infezioni al di fuori degli stessi. E’ successo con il vaiolo negli anni Sessanta e Settanta, come anche con la Sars negli anni recenti in vari paesi, per esempio quattro volte dallo stesso Istituto di Virologia di Wuhan.

Ma questo divieto fu aggirato per via di una clausola che permetteva le ricerche in caso di urgenza per proteggere la salute pubblica o la sicurezza nazionale. Fu necessario ottenere una deroga da due enti pubblici americani, uno dei quali è la National Institute of Allergy and Infectious Diseases (NIAID), guidato da Anthony Fauci. La deroga fu concessa, e quindi mentre Fauci ha svolto un ruolo molto importante negli Usa nell’ultimo anno, sembra avere almeno una parte di responsabilità passiva per aver permesso al sistema di esternalizzare le ricerche pericolose in merito ai coronavirus.

La moratoria americana sul finanziamento delle ricerche gain-of-function è stata rimossa nel 2017, in risposta a pressioni da parte della comunità dei virologi, che considerano questo tipo di ricerca un’importante fonte di attività futura. Non solo si considerano secondari i pericoli correlati, ma c’è una nuova spinta per accelerare, pensando alla possibilità di nuove pandemie.

Le condizioni di sicurezza a Wuhan

Viste le preoccupazioni in merito alla pericolosità di queste ricerche, si potrebbe pensare che il livello di sicurezza fosse molto alto nei laboratori coinvolti. Invece è vero il contrario, almeno nel caso dell’Istituto di Virologia di Wuhan. Le regole del settore prevedono che le ricerche sulla Sars e la Mers devono essere condotte con un livello di sicurezza BSL3 (il livello massimo è BSL4, ma piace poco agli scienziati perché le restrizioni fanno raddoppiare il tempo del lavoro), ma gli altri coronavirus potevano essere trattati al livello inferiore, BSL2. Le ricerche gain-of-function sono state condotte a questo livello, generando un alto rischio di infezione per i ricercatori nell’eventualità della creazione sintetica di un virus molto infettivo.

Secondo Richard H. Ebright, biologo molecolare ed esperto di biosicurezza della Rutgers University, lavorare con i virus di questo tipo al livello 2 pone “un rischio inaccettabilmente alto di infezione”, e a prescindere di cos’è successo nel caso del Covid, “questo lavoro non doveva essere mai finanziato e mai doveva essere condotto”.

Tra l’altro lo stesso governo americano ha riconosciuto problemi di sicurezza nei laboratori di Wuhan. Nel 2018 il Dipartimento di Stato Usa scrisse che nel nuovo laboratorio BSL4 di Wuhan “mancavano i tecnici e ricercatori addestrati in modo adeguato” per garantire il livello di contenimento necessario.

Conclusioni

Cosa significa tutto questo? Che le prove indiziarie per la fuga dal laboratorio sono forti, mentre quelle per il salto di specie sono deboli. Non ci sono prove dirette, cioè non si sa esattamente come è avvenuta la prima infezione, e non si può escludere del tutto la via naturale. Ci sono altri elementi tecnici da considerare da entrambe le parti – trattati a lungo nell’articolo di Wade – ma vista ora la probabilità pende sicuramente dalla parte della fuga accidentale.

Le implicazioni politiche sono importanti, e non riguardano solo la responsabilità dello stato cinese, come di quello americano e della comunità dei virologi internazionali, che senz’altro avrebbe molto da perdere se si accertasse l’ipotesi del laboratorio; si pone con urgenza il tema di come impostare le ricerche future.

Chi scrive non è uno scienziato, e come buona parte di noi deve fidarsi di quanto dichiarano gli esperti. Ma a questo punto servirebbero delle smentite dell’inchiesta del Bulletin of Atomic Scientists, che appunto per ora non si vedono. I documenti pubblici sollevano domande pesanti in merito all’origine del coronavirus. E’ ora di aprire le carte in merito alle ricerche a Wuhan, e di capire se per il futuro occorre cercare di anticipare la natura – con tutti i rischi connessi – o evitare di creare delle minacce che si rivelano peggiori di quelle naturali.

– Newsletter Transatlantico N. 17-2021

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